BUONGIORNO, NOTTE


recensioni di

Silvio Danese
Roberto Nepoti
Goffredo Fori
Francesco Merlo
Il Giorno (13/9/2003)
Silvio Danese
n un appartamento di Roma quattro brigatisti detengono il presidente della Dc Aldo Moro. Il delitto Moro, che pesa sulla coscienza del Paese come il delitto di una figura paterna collettiva, avendo condizionato politica e utopia alla fine degli anni '70, quale diritto avanza nella Storia? Il film risponde: la vita. Mentre si decide la sua eliminazione, il film prevede anche la sua liberazione (un grande Herlitzka che si allontana indisturbato per le strade di un altro futuro d'Italia), secondo un punto di vista che cerca la detonazione del mito, come fece Scorsese in «L'ultima tentazione di Cristo», immaginando che fosse la tentazione di esistere. Croce e delizia di questo inizio di stagione cinematografica, è un film che "pensa" la morte di Moro invece di tentare una cronaca della strategia delle parti. È una croce per l'Italia che aspettava un rito di ricostruzione/emancipazione e invece ha trovato un film concettuale, con alcuni limiti di pertinenza. È una delizia (amara) per chi si è riconosciuto nell'insieme delle contraddizioni e degli errori che hanno determinato il mito (del politico come paternità)

a Repubblica (6/9/2003)
Roberto Nepoti
Ci voleva una bella dose di coraggio per portare sullo schermo una volta di più la vicenda Moro. Se il film è - com'è - una grande riuscita, dipende da tutta una serie di scelte compiute da Bellocchio: giuste e, in più, coraggiose. Contrariamente alle versioni docu-drammatiche del "Caso Moro" o del recente "Piazza delle Cinque Lune", che aspiravano a rivelare la verità nascosta, Bellocchio ha scelto la triplice via dell'infedeltà (ai fatti), della fabulazione e dello sguardo personale. La prima gli ha permesso di introdurre un personaggio femminile; ispirato, sì, ad Adriana Faranda, ma protagonista di una metamorfosi intima che dà il senso agli eventi, tutti filtrati attraverso i suoi occhi. Perché Buongiorno, notte è un film di linguaggio, interamente inquadrato attraverso lo sguardo, gli sguardi: l'osservazione di chi vede senza essere visto (i carcerieri di Moro), il divieto di guardare, l'occhio della nazione, e dei media, puntato sul rapimento e altri sguardi ancora. Bellocchio traduce rigorosamente tutto ciò in termini visivi, dai mascherini attraverso cui Chiara spia il prigioniero al variare delle luci di scena sul primo piano di Maya Sansa; fino a che il suo sguardo - appunto - cambia, si muta in uno sguardo diverso (che è lo sguardo condiviso dal regista). Altra scelta felice quella d'introdurre nel racconto la sceneggiatura del giovane amico di Chiara: che, da un certo punto in poi, fa interferire la realtà storica con l'immaginazione della donna, regalando al film il suo bel finale "sognato".

Il Messaggero (9 settembre 2003)
Snobbato Bellocchio? Bene, il suo è un film infantile
di Goffredo Fori

La reazione scomposta e sciovinista della dirigenza Rai di fronte al verdetto della giuria veneziana che, presieduta da un italiano, ha osato non dare il massimo premio a un loro film, a un Film Italiano, Buongiorno notte di Marco Bellocchio (di questo passo, addio Oscar a Benigni, addio Palme a Moretti: che ognuno premi i suoi, valgano o non valgano, purché con i colori nazionali!); gli entusiasmi generali dei giornali e degli ”uomini di cultura” di destra, di centro e di sinistra per il medesimo film; l’essere a un tratto diventato Bellocchio emblema quanto Ciampi e la Nazionale di calcio dell’Unità della Patria, ricostituita attorno al suo modo di rievocare il caso Moro; tutto questo dovrebbe far riflettere il regista piacentino, ma dubito che ciò avverrà. Il plebiscito di consensi (italiani) gli può far male, con la convinzione che gli porta di aver subito una clamorosa ingiustizia. E invece no, oltre al film russo a Venezia c’erano in concorso, nel pastrocchio delle divisioni imposte dai gusti e dalle tattiche del direttore della mostra, film ben migliori di Buongiorno notte, e fuori concorso anche. Onestamente, sono tra coloro che hanno apprezzato diverse cose del film, ma che l’avrebbero fatto con più sentimento se non avesse tirato in ballo fatti e personaggi storici precisi, e li avesse reinventati con altri nomi e storie. Così com’è, Buongiorno notte è un film politico, che affronta una delle più tremende delle tante e vergognose storie che costellano il nostro passato e il nostro presente. E, «a film politico, giudizio politico», si diceva una volta. Specularmente al film di Bertolucci sul ’68, anche quello di Bellocchio non si distacca mai più di pochi centimetri dall’ombelico del regista. Bertolucci idealizza il suo ’68 molto borghese, Bellocchio ci parla del suo ”privato”, fa un film sui suoi miti e modelli familiari, e auspica riconciliazione e armonia di una famiglia che vuole anche ”famiglia Italia”, visti il soggetto, il modo di trattarlo e le soluzioni che gli offre. Prima del ’68, il protagonista di I pugni in tasca buttava la madre nell’abisso, e quella madre era una certa Italia. Ora Bellocchio è cresciuto, e assolve i padri (il Padre per eccellenza, Moro) e i figli (i terroristi), e auspica una storia riconciliata per via materna (la figura femminile idealistica e idealizzata della terrorista materna, i cui sogni sono il film: è lei la morale del regista). Il caso Moro fu una tragedia piena di responsabilità, piena di colpe, della classe dirigente e dei dopo-sessantotto, con cause definibili e lasciti altrettanto interpretabili. In ogni caso è Storia, come spezzoni tv e giornali ricordano nel film, e come rammentano i nomi stessi dei personaggi. Ma Bellocchio si serve di questo per dirci i suoi bisogni di ex figlio ribelle, diventato oggi padre ossequiente con figli obbedienti. Film onirico e psicanalitico, che però vuole chiamare in causa la realtà e la storia, Buongiorno notte è un film di conciliazione e di assoluzione delle principali parti in causa, e in esso tutto mi suona falso e idealizzato. Bellocchio, come Bertolucci, non sa interpretare neanche la sua stessa storia, il suo ”pubblico” e il suo ”privato” dentro il ”pubblico” di un quarantennio. Unici nemici che gli restano, Stalin (ma suvvia, se ormai perfino Rifondazione...!) e il Papa: guarda caso, quel Paolo VI che fu una delle poche persone pubbliche a uscire pulite dall’indecorosa vicenda politico-criminale del caso Moro. Il Padre buono e incompreso pensa da ultimo alla famiglia e ai nipoti, come la terrorista buona che ha scoperto un padre, in mezzo a colleghi che proprio non fanno paura e che non somigliano affatto agli spietati individui della realtà. Che, tra l’altro, distrussero un movimento con il loro fanatismo imbecille e aprirono la strada agli abomini politici successivi. E’ un film privato e infantile, quello di Bellocchio, che purtroppo va visto in chiave antropologica, sociologica e politica come l’esempio di un’Italia oggi riconciliata dal denaro e dal conformismo dei comportamenti. Bellocchio ha unificato da perfetto ”uomo d’ordine” l’Italia 2003 politica, televisiva, giornalistica. Che immenso successo!

Corriere della Sera del 11/9/2003
I brigatisti e Moro, sogni finti e tragiche realtà
di Francesco Merlo
Dopo il film di Bellocchio: le ricostruzioni psicologiche, il ritorno del "doppio Stato" Dunque di nuovo saremmo scemi, noi che già allora eravamo scemi perché antidemocristiani ma democratici. Dunque ora saremmo scemi perché non capiamo, anzi non sappiamo e neppure immaginiamo quanti bei sogni di libertà facevano, tra un omicidio e l'altro, i criminali delle Brigate rosse. E, scemi come siamo, benché pazientemente ce lo spieghino un film celebratissimo, la Braghetti, la Faranda, il Foglio, e persino l'Unità, ancora oggi non vediamo com'era bello e simbolico e candido il sogno di riscatto e di purezza che la brigatista, carceriera e assassina di Moro, fece poco prima di partecipare alla sua uccisione. E chissà dopo la morte di Moro cosa ancora sognò, prima di commettere gli altri delitti, questa stessa signora Braghetti, che ora fa la scrittrice ed è l'ispiratrice del film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte, che noi a Venezia non avremmo premiato neppure se ci fosse piaciuto, perché non se ne può più dei pazzi che devono anche avere ragione, di queste anime aride che non sognano ma delirano, visto che i sogni veri sono privati e solo i mostri non hanno privato ma ambientano le loro visioni sulla panchina di Lenin o sulla locomotiva proletaria, e nel sonno vedono la faccia di Stalin e sentono il coro dell'Aida, Schubert e i Pink Floyd. Questi sono sogni? Chissà come ci resterebbero male Fellini e Buñuel... In somma non ne possiamo più di questa psicologia degli assassini, che avrebbe bisogno più di un infermiere che di un regista cinematografico. D'altra parte siamo scemi anche perché non ci convince che sarebbe bastata una scoppoletta a fermarli, e che gli assassini di Moro non erano mostri ma mostriciattoli sognatori, e che anzi c'era una delicatezza nascosta in loro, come un fiore nel corpo di una iena, e che il vero mostro stava invece altrove, nel sottofondo dello Stato, nel doppio Stato che con una mano combatteva e con l'altra proteggeva le brigate rosse, come ha raccontato Adriana Faranda al Giornale e all'Unità: "Ancora mi chiedo perché non ci hanno mai preso. Eravamo l'anello debole, abbiamo consegnato decine di lettere, eravamo così vulnerabili e non capisco perché non ci prendevano". Insomma, erano, in fondo in fondo, tutti buoni i protagonisti di quei terribili giorni di morte. Tutti buoni, ci suggerisce questa ricostruzione psicanalitica, tranne il Papa, Andreotti e il Pci. È come se ci fosse una stessa tensione che corre tra la Faranda di allora e alcuni giornali di oggi, tra i quali incredibilmente l'Unità, ovviamente di ora e non certo di allora, che fu il giornale della fermezza dello Stato (tutto intero), quello del compromesso storico, quello che fece giganteggiare sul piedistallo della democrazia e della civiltà un leader politico discutibile come Aldo Moro. E va bene che siamo in tempi di moralismo politico semplificatorio che, a testa bassa, non sopporta le mediazioni e le articolazioni complesse, ma davvero non si capisce perché i brigatisti debbano parlare così tanto, visto che l'unica cosa che sanno fare in più di noi è ammazzare qualcuno, e dunque forse dovrebbero ascoltare noi piuttosto che parlare a noi. Si afferma invece una specie di sottocultura che li rende protagonisti, e che accoglie le loro foto segnaletiche non nelle stanze del Museo Pitrè, quello dei briganti siciliani, ma nei dibattiti della vita civile. Chissà dunque cosa sognò Maria Laura Braghetti prima di uccidere ancora, due anni dopo l'assassinio di Moro. Chissà come fu onirica la sua notte il 12 febbraio 1980, poche ora prima che ammazzasse come un cane il professore Vittorio Bachelet in un altro di quei vigliacchi agguati che ovviamente non sono agguati e criminalità ma rivoluzione, lotta di classe, ideologia, religione. E chissà com'erano dolci le kapò naziste quando sognavano nel loro letto, tra una tortura e l'altra. Spiace doverlo dire con crudezza ma se fossero dignitosi, Maria Laura Braghetti, Adriana Faranda, Valerio Morucci e tutti - ma proprio tutti - gli altri brigatisti, tutti assassini in libertà, dovrebbero farsi dimenticare, piuttosto che partecipare al dibattito sull'ingegneria istituzionale, sul regime che fu e su quello che avrebbe potuto essere. E se fossimo dignitosi noi, che bene abbiamo fatto a liberarli per civiltà giuridica e per generosità sociale, ora li relegheremmo in un obitorio culturale. Non è dignitoso, non è educativo, non è giusto e non è nemmeno interessante che proprio loro ci vengano a raccontare come e perché la morte di Moro ha cambiato l'Italia. In piena sintonia con i sogni della Braghetti e con le tesi della Faranda, un fondo dell'autorevole, e solitamente ragionevole, compagno Bruno Ugolini sull'Unità ("Moro, e se lo avessero liberato?"), ci ha spiegato che "con Moro vivo, Berlusconi Previti e Bossi non sarebbero comparsi all'improvviso a fare il bello e il cattivo tempo in questo paese". L'astuzia del doppio Stato insomma ha usato la Faranda per rifilarci Berlusconi e Previti. Quale Letta e quale Ferrara!, ora finalmente sappiamo con chi prendercela: con la Faranda, con l'ingenuità della Faranda, povera donna. Anche l'Unità di oggi avrebbe dunque voluto salvare Moro, trattare con le Br di allora, fermare il secondo Stato, lo Stato della fermezza, vale a dire il Pci? L'Unità di oggi contro l'Unità di ieri? Lilliput contro Berlinguer? Inutile chiedere in quale ideologia sognatrice si siano dissolti i drammi umani e familiari, reali e duraturi dei cinque proletari della scorta di Moro. In cambio di quale chiacchiera politologica e per quale aberrante ragione si potrebbe dimenticare il sangue di quella mattina? Un poco meno visionari di Ugolini, i brigatisti si sono limitati a farfugliare che se avessero restituito Moro ai suoi familiari invece di ucciderlo, non ci sarebbe stato bisogno di attendere la caduta del muro di Berlino, le inchieste di tangentopoli, il referendum di Mario Segni e tutto il resto per liberare l'Italia. Ma liberarla da che cosa? Non è vero che in quel covo Moro e i suoi assassini erano prigionieri di una stessa miseria nazionale. Moro era un uomo che faceva politica, che non trattava la classe operaia con i cannoni di Bava Beccaris o con le milizie padronali, era un interlocutore anche dei ceti poveri, un interlocutore politico e non un sequestratore o un bombardiere. La figura di Moro, morte compresa, appartiene alla storia della politica italiana. Quella dei suoi assassini alla criminologia che, grazie a Dio, non è più razzismo lombrosiano. E infatti il presunto regime non ha fucilato i brigatisti, li ha sottratti anche all'ergastolo, e non riserva ai loro cervelli la conservazione in formalina. Ma tutti questi microfoni e cineprese, questo compiacerli, e tutto questo sdolcinarli e somministrarceli in un dibattito psicopolitico che, va detto chiaro, non interessa a nessuno, salvo a qualche allievo di Freud e di Lombroso, sono altrettanto aberranti, forse persino peggio della formalina.



 
 

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