Ma che cos'ha di tanto speciale Luigi Lo Cascio?

Lavinia Rittatore

L'emergente e l'emerso 
di Claudio Caruselli e Raffaele Rivieccio

Il meglio giovinotto
Marco Spagnoli

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Roberto Pavanello

Lo Cascio alias Impastato
Beatrice Rutiloni


 


Ma che cos'ha di tanto speciale Luigi Lo Cascio?
di Lavinia Rittatore
31/10/2003 - Donna Moderna
http://www.donnamoderna.com/uomini/a021001004354.jsp



Come si sente a essere l’attore italiano del momento?
«È successo per caso, solo perché sono contemporaneamente in tre film di successo. Certo sono un po’ confuso, ma è una confusione piacevole, gratificante».

Domanda d’obbligo: tutto questo successo l’ha cambiata?
«È arrivato tardi, a più di trent’anni, quindi ero già abbastanza maturo. Certo, mi fa piacere quando mi riconoscono per strada. Anche se spesso si stupiscono: “Sullo schermo sembri più alto, più bello...”».


Sognava di diventare famoso?
«No, né pensavo che avrei mai fatto del cinema. Il mio grande amore è sempre stato il teatro. Ho lavorato dieci anni sul palcoscenico, e vedevo sì e no due film all’anno. Avevo un forte pregiudizio nei confronti del grande schermo, pensavo che fosse molto meno poetico del teatro, e poi non credevo di avere la faccia, la voce, la personalità adatte».

Che cosa l’ha convinta del contrario?
«Un giorno mi telefona mio zio, Luigi Burruano, l’attore che ne I cento passi fa mio padre. E mi dice: “Vieni subito qui, sto pranzando con Marco Tullio Giordana che è alla ricerca di un attore per il ruolo di Peppino Impastato, e non riesce a trovarlo”».

E poi com’è andata?

«Prima ho rifiutato. Che ci vado a fare, pensavo, che c’entro io con il cinema? Alla fine il regista mi ha convinto».

Giordana l’ha voluta anche come Nicola ne La meglio gioventù: in questa saga lei deve coprire ben quarant’anni di storia.
«È stato molto impegnativo, il pubblico vede sei ore, noi abbiamo girato per sei mesi. E molte volte facevamo dei salti temporali pazzeschi: prima avevo vent’anni, dopo due ore avevo una figlia di vent’anni».

Che effetto le ha fatto vedersi come un signore di mezza età?
«Direi che invecchio bene! Ma non mi fa paura il tempo che passa. E poi il personaggio di Nicola ha il vantaggio di restare sempre un po’ ragazzo: nonostante i tanti dolori che gli ha riservato la vita, è proiettato verso il mondo, non si ripiega mai su se stesso».

Ci sono affinità tra lei e Nicola?
«Sì, a partire dal fatto che lui è psichiatra, la professione che sognavo di fare da ragazzo. Tanto che ho frequentato due anni di medicina a Palermo, la mia città».

Perché voleva fare lo psichiatra?
«Ho uno zio che fa questo mestiere, e quando ero bambino mi portava alle partite di calcio con alcuni suoi pazienti. Ho conosciuto da vicino queste persone che hanno una grande sofferenza dell’anima, capaci anche di toccare grandi profondità rispetto a noi che troppo spesso siamo legati alle cose più superficiali della vita».

Dalla psichiatria alla scena: un cambiamento radicale.
«In realtà fin da giovanissimo con degli amici avevo messo su una piccola compagnia di teatro di strada, Le ascelle. Facevamo gag demenziali tipo: “Cabaret paraponziponzi pé”. Con i soldi che guadagnavamo ci pagavamo i viaggi e le vacanze. Poi ho fatto una scommessa: tentare la strada dell’accademia. Se mi avessero accettato al primo colpo bene, altrimenti avrei continuato medicina».

In casa come l’hanno presa?
«Mia madre benissimo, mio padre meno. Faceva il chimico, sperava di aprire con me un laboratorio di analisi. Purtroppo non mi ha mai visto al cinema, è scomparso prima».

Che cosa ricorda dei tempi dell’Accademia?
«Lo stupore di vedere Roma, con tutte quelle fontane. Io ero abituato a Palermo, dove l’acqua spesso scarseggia. Ma l’Accademia per me ha significato soprattutto trovare nuovi amici. Come Alessio Boni e Fabrizio Gifuni, miei compagni di corso, che poi ho ritrovato in La meglio gioventù. Fabrizio mi ha anche ospitato per un anno».

Nicola in La meglio gioventù, Mariano in Buongiorno, notte, Vito in Mio cognato: quale delle tre parti ha amato di più?
«Tutte. Per me il mestiere dell’attore è un modo per esplorare personalità diverse dalla mia. È una sfida. Mi sono sempre piaciute le sfide. Quando ero ragazzino, per esempio, facevo gare di salto triplo. Non ero alto, ma sono stato tra i primi dieci in Italia».

E l’amore come va?

«Bene, grazie».

Tutto qui? Come si chiama, che cosa fa, da quanto tempo vi conoscete...
«Si chiama Desideria, fa la montatrice e ci siamo conosciuti circa tre anni e mezzo fa».

Su un set?
«No, come vicini di casa. Lei si è innamorata del ragazzo della porta accanto».
 

L'emergente e l'emerso 
di Claudio Caruselli e Raffaele Rivieccio
www. il cinemante.it


Quanto le tue radici palermitane, siciliane, ti hanno aiutato a costruire i personaggi teatrali e cinematografici?
La prima fonte di ispirazione viene dalla mia frequentazione del cabaret palermitano: mio zio è Luigi Burruano, noto cabarettista in Sicilia, che nel film I cento passi interpreta mio padre. La prima volta che sono andato a teatro era per uno spettacolo che si chiamava "La coltellata" e, siccome non c'era posto, mio zio mi fece entrare da dietro le quinte. Da dietro le quinte vedevo contemporaneamente, come in vari strati, il palcoscenico, gli attori e poi il pubblico. Stare nel retropalco, significa assistere ma anche essere protagonisti in scena. Seguivo anche le compagnie che frequentava mio zio, tutti gli attori del cabaret e del teatro siciliano, come Tony Sperandeo, ma anche Giacomo Civiletti, Paride Benassai, sono degli attori abbastanza shakespeariani; hanno dunque una formazione popolare ma anche disponibilità alla poesia e alla lirica, come immagino siano stati gli attori della Commedia dell'Arte e nell' Inghilterra di Shakespeare.

Se pensi al mestiere d'attore, la regionalità è un termine da superare?
In Italia la regionalità dell'attore è un problema perché, considerando che non c'è una lingua che unifichi il parlato ed il teatro, accade che il dialetto connoti molto fortemente i caratteri: parlare in siciliano rimanda a un certo codice espressivo, a una certa società, quindi quella che potrebbe essere la naturalità di un dialetto viene subito svilita e contraddetta dal fatto che automaticamente si restringe il campo a puro folklore.
Credo che la regionalità sia la carta d'identità dell'anima. Non tanto dal punto di vista espressivo, ma per il fatto di appartenere ad un universo, e a dei colori, dei suoni, delle immagini che formano l'armamentario, l'archivio da cui, poi, un attore attinge. Per cui un attore siciliano, è molto diverso da un attore toscano aldilà della lingua, soprattutto per il crogiuolo, per l'arsenale da cui ha preso il suo armamentario. Per esempio, nel film I cento passi: tanto più si è regionali, si è inscritti in un mondo apparentemente racchiuso, e si parla quella lingua con necessità, tanto più si diventa universali. Che è anche il segreto della poesia. Ne I cento passi, trattare la lingua in quel preciso contesto, ha avuto un senso. Invece portare il regionalismo nel teatro può anche essere un rischio. Ho assistito a un provino che faceva Lavia: c'era un attore con una inflessione napoletana, e lui l'ha fermato dicendo "tu puoi anche parlare in napoletano ma nella fattispecie, Romeo e Giulietta, si svolge nel Veneto. E' chiaro che si crei uno shock nell'ascoltatore che è abituato a riconoscere la semantica, la fonetica dei dialetti. Purtroppo noi italiani siamo costretti alla neutralità di comodo di un italiano che è poi molto simile al romano e al fiorentino.


Il personaggio nel film di Giordana rispecchia i tuoi ruoli teatrali precedenti oppure nel tuo bagaglio c'è anche una vena più leggera, magari comica?
Ho fatto l'Accademia d'arte drammatica Silvio d'Amico, e presentai come pezzo di ammissione un brano di Petrolini che si chiamava Roba seria: un collage fatto con tante poesie, da Dante, Foscolo, Carducci, messe tutte in sequenza a formare un discorso unico che provoca un grande nonsense, dove si prende in giro non tanto la lirica ma la tradizione attoriale di Zacconi, Ricci; io provenivo dal cabaret. Prima ancora studiavo medicina, contemporaneamente ero in un gruppo teatrale cabarettistico che si chiamava "Le ascelle"; facevamo cabaret biodegradabile, cioè cabaret "paraponziponzipè", di tradizione milanese, sulla scia di Cochi e Renato, Jannacci e anche la Germania di Valentin, anche certe cose di Brecht.
In accademia nei primi anni mi affidavano più che altro parti comiche; invece dopo il diploma le parti che ho interpretato a teatro erano tutte abbastanza drammatiche; anche la chiave interpretativa di Peppino Impastato è la sua grande ironia, l'intuizione di utilizzare la parodia per sminuire, per impolverire, come il fool di Shakespeare: fai scendere dal piedistallo queste presunte eccellenze.
Difatti un film sulla mafia può essere più incisivo con l'arma dell'ironia, come ha fatto Tano da morire...
Nel vocabolario della mafia, essere "uomo d'onore" e tutti i rituali intorno, il senso della "famiglia", delle gerarchie di potere, porta con sé un'atmosfera sacrale, quasi religiosa; è quello che fa della mafia una teologia dell'intoccabilità, E' in questo punto che la parodia si insinua e ha una potenza innanzitutto iconoclasta: mette sul piatto dei valori effettivi dove sta la realtà delle cose
.

Dicevi di aver respirato in famiglia l'atmosfera dello spettacolo...
Oltre mio zio anche un cugino paterno che si chiamava Elio Lo Cascio aveva lavorato con Renato Rascel, un bambino prodigio un po' come Salvatore Cascio di Nuovo cinema paradiso. Negli anni '50 aveva fatto un film bellissimo che si chiamava La spiaggia, con Enrico Maria Salerno, Alida Valli, poi si trasferì a Roma per lavorare ed cambiò totalmente genere: ora è professore d'università.
Burruano era per me una presenza ingombrante, un personaggio assolutamente inarrivabile: tutt'al più poteva complessarmi. Non pensavo di fare l'attore: è successo che ho fatto una tourneè con Federico Chiezzi, in Aspettando Godot, recitando al Quirino, al Carignano, ma da studente di medicina; lì ho subito una fascinazione per il mondo del teatro dal punto di vista sensoriale: cioè l'odore del sipario, il palcoscenico, come sono fatti i camerini, il "chi è di scena", tutte queste cose m'hanno destabilizzato rispetto a quello che volevo fare prima. Mi innamorai della carnalità del teatro, della sua parte percettiva. Dopo ho deciso di fare l'accademia perché non avevo nessuna impalcatura tecnica. Ho incominciato tardi dunque, a 22 anni, prima il cabaret per me era un gioco: girare l'Italia e l'Europa col cappellino, fare questi sketch, queste pantomime e guadagnavamo la serata.


Per te ora il cinema ha lo stesso fascino del teatro o ne è una sua naturale amplificazione?
Vedo il cinema come una cosa molto diversa anche perché le sceneggiature di un film non hanno le stesse caratteristiche di un testo teatrale; nel cinema la presenza di un autore è molto più forte. L'autore del cinema sceglie come mostrare tutto, se farti un primo piano, è lui che immagina la totalità del mondo da rappresentare; tu sei molto più strumento nelle sue mani rispetto al teatro.
Nel cinema poi non si fanno lunghe prove come a teatro e tutto può cambiare in funzione del set che trovi quel giorno, di come è la scena. Potrebbe sembrare falsa modestia, ma non pensavo di avere le caratteristiche per il cinema, dove sono la tua faccia, la tua voce, il tuo corpo a contare.
E' molto impudico il cinema; nel teatro invece sapevo di poter scomparire dietro una maschera, dentro il verso di una poesia. Si può, perfino, quando si è in tourneè e si fanno le repliche, inserire un "pilota automatico", conosci già il tuo percorso e, tra una scena e l'altra, segui lo spettacolo magari giocando a carte.


Per il tuo modo di essere attore, sono stati fatti i nomi di Al Pacino e di Dustin Hoffman. Come ti senti rispetto a questi numi tutelari o anche ad un grande attore del cinema d'impegno italiano come Gian Maria Volontè?
Come spettatore, amo molto Gian Maria Volontè. Ma, tolto il periodo neorealista, sono abbastanza ignorante sul cinema, ne parlo soprattutto da spettatore. Al Pacin, Dustin Hoffman ma anche Robert De Niro, hanno la possibilità di interpretare film che permettono fortissime caratterizzazioni, raramente rifanno sé stessi.
Lo scenario, il contesto americano consente ad un attore di passare da Taxi driver a Toro scatenato. E solo il rigore di Gian Maria Volontè, la scelta fortemente sua, lo ha portato a Giordano Bruno o a Enrico Mattei, personaggi comunque dalle forti connotazioni, che lasciano spazio al gioco attoriale della metamorfosi. In Italia invece ho sentito registi che dicevano "mi interessi tu, voglio te, la tua espressività..." quindi fai quel film, magari altri cinque film e poi se cercano una faccia e non il tuo lavoro di interpretazione, dopo un po' ti esaurisci. Fai ruoli che apparentemente possono essere un po' diversi ma avendoli rapportati a te finiscono per somigliarsi. Io invidio molto, in un certo senso, il cinema americano perché racconta delle storie che in Italia sarebbero estreme e inverosimili; ma negli Stati Uniti hanno una loro plausibilità.


Cos'è cambiato nella tua percezione del lavoro dell'attore dopo il grande successo personale ne "I cento passi"?
Attraverso i riconoscimenti che possono essere i premi, oppure le gratificazioni che vengono dal pubblico, è come se si accrescesse la possibilità di avere libertà di scelta. Puoi partecipare automaticamente, attraverso il successo, della tua esperienza anche in futuro; insomma aumenta la libertà di spostarsi verso quello che è più congeniale, dal punto di vista culturale. Mi capitava prima di accettare tutto, era più quello che si definisce il "mestiere".

Non è che ogni cosa che si fa vada eccessivamente vagliata: in fondo lo spettacolo è anche un grande gioco, vorrei pensare di essere all'altezza di qualcosa che neanche io saprei definire di me. Capiterà anche di fare delle sciocchezze; se uno è grande può permettersi anche di cadere nel fango, se uno non è grande allora neanche si pone il problema, fa questo o quello indifferentemente.

Alla fine di una carriera, con l'impronta che lascia, se la lascia, l'attore capisce se delle scelte siano state degli errori oppure le giuste tappe di un percorso. Io cerco di fare delle cose che non siano contro la mia natura più profonda: quando capitano servizi fotografici per le riviste e mi dicono "mettiti questo vestito di Armani", io riesco ad avere, anche se potrà sembrare presuntuoso, la forza di essere cacacazzi, "no, io non me lo metto...".

Si dà per scontato che l'attore è una marionetta: mi può stare bene che lo sia se parliamo di Kleist, di Gordon Graig, o di Totò. Spero nella realtà di rispettarmi più come persona che non come attore: nella mia carriera farò anche io delle scemenze, dovute anche al fatto che è difficile trovare sempre delle cose di valore; allora o sei un asceta, un monaco, o sei un attore della grandezza di Volontè, attori che se guardi la filmografia difficilmente trovi una sporcatura.

Nelle interviste i registi dicono che le storie non ci sono perché non ci sono attori in grado di sostenerle. Quello che posso dire è che tra le sceneggiature che mi hanno proposto è difficile trovare cose veramente interessanti. Difficile trovare delle sceneggiature dove c'è un'attenzione anche ad una parola interessante, allusiva, dove non tutto è detto ma c'è qualcosa che rimane ancora misterioso, in sospeso.


Quanto hai stimato il cinema d'impegno degli anni '70, ripreso idealmente dal film di Giordana?
Appartengo alla frangia dei barbari, fino a due anni fa andavo al cinema due volte all'anno. Ma nel momento in cui avviene l'innamoramento nel mio caso il film con Giordana capisci la seduzione anche da spettatore. Ora invece riesco a vedere anche due film al giorno.

Ho delle grandi lacune, amo ad esempio Petri che conosco un po' meglio: i suoi prima di essere film d'impegno sono bei film, ad esempio I giorni contati con Randone, che è un film più esistenziale, racconta una Roma particolare, la Roma di un idraulico. Partono sempre da un discorso politico, civile, però toccano temi che appartengono all'uomo in generale. Quando vedi un suo film degli anni '60, non senti che sono passati quasi 40 anni: perché parla ancora la nostra lingua, la nostra sensibilità, il nostro pensiero. "I giorni contati" l'ho rivisto da poco ed è un film che è ancora capace, come l'arte credo, di shockare, di tramortire chi lo guarda e di non lasciarlo indifferente. Ci si confronta con qualcosa che è aldilà della storia che si racconta, e che diventa una forma particolare di quell'alchimia strana di sole immagini che è il cinema.


Rivedendoti come Peppino Impastato al cinema che emozione hai provato?
Non avevo mai fatto film e ho avuto anche la fortuna di non fare provini, una trafila che purtroppo si fa, sapete, il rito del book, degli agenti. Invece con Giordana ed il produttore Mosca è stato un incontro casuale e fortunato; non avevo fatto neanche un cortometraggio quindi era la prima volta che mi vedevo con l'occhio non dello specchio ma di chi mi guarda. Ed è un doppio piacere: da una parte come attore vedermi recitare, dall'altra anche come persona … "ah, guarda come ho il naso, come mi muovo, le gambe storte, come sono basso...". Vedermi, radiografarmi come individuo che si muove nel mondo, poi mi sentivo anche dentro una cosa di finzione, mi studiavo anche dal punto di vista antropologico.

Ho chiacchierato molto con gli amici di Peppino, subito sono andato al centro di documentazione intitolato a Peppino Impastato e là ho incontrato anche il fratello Giovanni; per ultima ho conosciuto la madre che all'inizio era molto titubante sul fatto che io potessi farlo, poi vedendomi sullo schermo si è molto emozionata e mi ha detto che gli avevo resuscitato il figlio: questa è stata una delle cose più toccanti. Ho fatto un po' la spugna rispetto ai loro racconti, facevo delle domande ma più che altro stavo lì ad ascoltare le loro testimonianze su come si muoveva, come camminava.

Poi ho pensato che probabilmente il lavoro doveva essere inverso: i miei movimenti, i miei sguardi, la mia voce dovevano essere soltanto il fenomeno visibile di qualcosa di più profondo ma anche di più superficiale; intendo proprio le superfici toccate dall'urlo di Peppino, il suo essere uomo anche di piazza, di teatro, di contatti umani. Infine è avvenuto il contrario, che cioè io non ho pensato più a come mi dovevo muovere, ma mi sono lasciato guidare dalla possibilità di avere intuìto qual'era la cartografia, il corpo particolare della sua anima o della sua esperienza: la sua spiritualità.

Una cosa che mi ha aiutato, è stato chiedere quale fosse il suo musicista preferito: mi hanno detto Tenco, allora per due settimane l'ho ascoltato e mi è servito molto, c'è qualcosa di somigliante nel destino di Tenco e di Impastato. Io non conosco bene Tenco come autore, ma ascoltando le sue canzoni e pensando al suo destino, c'è anche una certa necessità, che può portare a volte a guidare la propria vita fino all'estremo, dove non c'è spazio per la scelta ruffiana o di comodo; tutto è vissuto sempre come se quello che si sta facendo sia la cosa più importante che sta avvenendo in quel momento nel mondo. E quella è l'unica cosa che dà il coraggio per giungere a certe vette di significato e di bellezza. Un maleddettismo che non è una posa ma una necessità. E' inevitabile scontrarsi e se ci si scontra con qualcosa di grosso si diventa titani a propria volta. Davide non rimane Davide dopo che ha ucciso Golia ma ne prende il posto, diventa all'altezza di quel gigantismo.

Peppino comunque si è scontrato con Tano Badalamenti che in quel momento era il vertice di Cosa Nostra: si è scontrato non con un piccolo boss mafioso ma con la Mafia, con qualcosa di maiuscolo. Per questo ha lasciato un segno, perché la sua battaglia è stata alta, è stata eroica.


E il futuro? Cinema o teatro?
Voglio fare il cinema perché ho visto che non è male, ha pagato e mi ha appagato, attaccato e staccato. Ho detto tanti no perché ho avuto dopo "I cento passi" ma il film di Piccioni mi ha molto affascinato per la sceneggiatura. Per ora il teatro l'ho messo un po' tra parentesi come quando uno fa un viaggio.
Adesso sto viaggiando verso altro però la casa è il teatro, quindi sicuramente tornerò.


Il meglio giovinotto
di Marco Spagnoli
http://cinema.supereva.it/interviste/artI598.html

Qual è la trama di Mio cognato?
Io sono una persona semplice, perbene, educata con dei valori, che abita vicino a Bari. Mio cognato, interpretato da Sergio Rubini, invece, è all’opposto: infantile e truffaldino.

Cosa fa nel film di Bellocchio?
Ho il ruolo di uno dei terroristi coinvolti nel processo Moro.

Che responsabilità sente di avere come attore, essendo uno dei pochi che in breve tempo ha partecipato a due film importanti ambientati durante gli anni di piombo come La meglio gioventù e Buongiorno, notte?
E’ un discorso complicato: fare film sulla contemporaneità è molto difficile. In questo momento si tratta quasi di mera cronaca. E’ assai complesso tirare le fila di un discorso che possa tentare di dare delle spiegazioni. Fortunatamente, però, gli anni Sessanta e Settanta si vanno un po’ più delineando. Per un attore il discorso delle epoche è secondario rispetto all’interpretazione dei personaggi. Ci sono elementi che travalicano il tempo e che accomunano gli uomini di tutta la storia.

La meglio gioventù è stato un film molto importante per il cinema italiano. Come Novecento di Bertolucci ha messo in mostra una generazione di italiani, interpretata da una nuova generazione di attori come lei, Gifuni, Sonia Bergamasco, Maya Sansa, Alessio Boni, etc. Come si pone nei confronti di questo aggettivo ‘generazionale’?
Non è un problema e non è la cosa che mi ha interessato. La scelta delle sceneggiature o dei testi o delle cose da dire. Tutto quello che è generazionale appartiene al mondo di voi critici che – in genere – tirate le somme. Io, che interpreto un personaggio, sospendo il giudizio.

Perché?
Perché sarebbe paralizzante. Se mi fossi preoccupato di quello che sarebbe potuto accadere nel caso di Peppino Impastato, se avessi valutato tutte le responsabilità che avevo, non avrei potuto fare nulla o quasi. Questi elementi contano, ma un attore – per dare il meglio di sé – deve poterli mettere tra parentesi per muoversi più liberamente nell’interpretazione.

In tre anni lei è diventato uno degli attori di riferimento del cinema italiano. Cosa significa per lei?
Mi fa piacere. Venivo dal teatro e prima de I cento passi non avevo mai fatto nulla. Ho avuto la fortuna di imparare lavorando. Sono stato fortunato, perché i registi con cui ho lavorato sono stati generosi e si sono messi in una posizione da maestri, per cui tutte le volte che si interpretavano scene più difficili, avevano la generosità di darmi qualcosa che aveva anche a che fare con la grammatica del cinema. Sento che – film dopo film, personaggio dopo personaggio – vado allargandomi, crescendo. I miei ruoli, fortunatamente, mi aiutano, perché sono diversi e toccano corde di umanità differenti.


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Cineweb a cura V. Mazza & R. Pavanello
di Roberto Pavanello, 17 aprile 2002
http://www.lastampa.it/_web/_rubriche/cinema/cineweb/anticipazione/anticipazione020417.asp



Ci sono attori che dono destinati ad entrare di diritto nella storia del cinema di qualità. Luigi Lo Cascio è uno di essi. Si è meritato il David di Donatello come miglior attore esordiente per il suo Peppino Impastato nel film di Marco Tullio Giordana "I cento passi". La sua seconda interpretazione in "Luce dei miei occhi" di Giuseppe Piccioni gli ha portato addirittura la Coppa Volpi all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. Ora nel suo terzo film, "Il più bel giorno della mia vita" di Cristina Comencini, conferma tutto ciò che di buono (e non è poco) aveva messo in evidenza nei due lavori precedenti.


Sono bravi i registi che La scelgono, è Lei che ha un sesto senso per i film giusti o è solo fortuna?
Al primo posto metterei la fortuna. Facevo teatro e mi sono per caso imbattuto in Marco Tullio Giordana che cercava l'attore per interpretare Peppino Impastato senza riuscire a trovarlo. A settembre 2000 "I cento passi" andò a Venezia e Giuseppe Piccioni vide il film poco prima di chiudere il suo cast e mi scelse. Sarebbe bastato poco perché non facessi parte di "Luce dei miei occhi".
E' ovvio che poi la fortuna bisogna anche saperla gestire. Dopo la Coppa Volpi mi sono arrivate moltissime proposte. I premi danno la possibilità di scegliere e così ho potuto gestirmi con autonomia.


Come sceglie i Suoi film?
Leggo la sceneggiatura e mi chiedo: che cosa posso dare io a questo film? Se la storia mi interessa e penso di poter dare il mio contributo, allora accetto la parte. Nel cinema l'attore è solo uno strumento nelle mani del regista. A teatro è diverso, perché, il regista si occupa della messa in scena e poi scompare lasciando che sul palco emergano la bravura di chi recita e la sua personalità. Il cinema è un linguaggio più articolato dove la presenza dell'attore è solo una della tante componenti. Va però sottolineato come io debba molto a Peppino e Antonio perché sono due personaggi che sono entrati nel cuore degli spettatori e hanno permesso che venissi apprezzato.

Parliamo di Claudio, il giovane avvocato omosessuale che interpreta nel film di Cristina Comencini
Il più bel giorno della mia vita" racconta l'amore e l'eros all'interno di una famiglia. Claudio ha un problema amoroso legato alla difficoltà di confessare, anzi urlare al mondo la sua omosessualità. Ha aderito al pregiudizio, insito nella sua famiglia, del quale egli stesso è vittima. Così ha scelto il silenzio. Non solo con gli altri, anche con se stesso. Claudio infatti vive la sua omosessualità come un soddisfacimento fisico e non come appagamento sentimentale. Durante il film invece passa da una condizione di clandestino dell'amore alla piena consapevolezza che l'omosessualità è solo una modalità dell'amore. Comprende così che può aspirare anch'egli alla felicità e a costruire una famiglia.

Come si è preparato per interpretare questo personaggio?
In modo del tutto normale. E' ora di finirla con i pregiudizi. Un omosessuale è un personaggio come un altro. Mi sembra normale che un uomo possa innamorarsi di una donna così come di un uomo. Ho accettato di interpretare Claudio perché mi piace ciò che quest'uomo dice. Non mi sono posto problemi su quale genere di interpretazione avrei dovuto offrire. E' un uomo assolutamente normale.

La famiglia di Claudio sta attraversando un periodo di crisi e nel film vengono affrontate molte problematiche relative ai rapporti interpersonali.
Il film mette in evidenza che, indipendentemente dall'età dei protagonisti, di fronte al problema amoroso tutti sono vittima del dubbio e del tentennamento. Tutti devono prendere una decisione e ognuno lo fa seguendo una propria strada. Penso che alla fine il più deciso risulti proprio Claudio. E' colui che dà lo scossone più forte e comincia a vivere felicemente la sua storia d'amore.

Quale visione dell'amore emerge?
L'amore dà la possibilità di conoscere e di conoscersi. Il film si concentra sul rapporto tra amore e corpo e guarda a come ciò è visto e vissuto dagli altri e quali reazioni crea.

Attualmente Lei è impegnato sul set di un film per la tivù nuovamente diretto da Marco Tullio Giordana. Di che si tratta?
Anche qui viene raccontata la storia di una famiglia e delle persone con cui entra in contatto ma lungo l'arco di trent'anni. Dagli anni sessanta ad oggi. Il titolo è "La meglio gioventù", fiction in quattro puntate che dovrebbe essere trasmessa entro fine anni dalla Rai, anche produttrice con la Bibi Film di Angelo Barbagallo. Abbiamo iniziato a girare a gennaio e finiremo a luglio.

Che ruolo interpreta?
Nella famiglia ci sono due sorelle e due fratelli. Io sono Nicola uno di questi e sono uno psichiatra che appoggia la causa goriziana e segue le teorie di Franco Basaglia sul pensiero antipsichiatrico che imperversavano negli anni Sessanta (da esse deriva la legge 180 sulla chiusura dei manicomi, n.d.r.). Oltre a me ci sono Sonia Begamasco, mia moglie, Fabrizio Gifuni, il mio migliore amico, Alessio Boni, mio fratello Matteo di professione poliziotto, Andrea Tidona e Adriana Asti che interpretano i miei genitori e Claudio Gioè col quale ho fatto "I cento passi". Completano il cast Maya Sansa, Jasmine Trinca e Valentina Carnelutti.


Lo Cascio alias Impastato
Beatrice Rutiloni
http://www.film.it/articoli/2001/05/03/103442.php


Prima di calcare le scene sei passato alla facoltà di medicina, un percorso un po’ singolare…
Dove l'hai letto? E' vero, ho fatto due anni a medicina, volevo diventare psichiatra, è una passione di famiglia. Poi mi sono iscritto all'Accademia d'arte drammatica, qui a Roma, e mi sono diplomato nel ‘92. Non sono due cose tanto diverse, in fin dei conti. C'è molta introspezione nel mestiere dell'attore, soprattutto a teatro. L'attore è un mezzo, pura corporalità, per arrivare a questo punto devi necessariamente prendere coscienza della tua essenza fisica e metterla in relazione col pensiero. "Anything goes", l'importante è l'effetto, questa è la mia personale filosofia del mestiere. Il corpo dell'attore va usato come se fosse un violino, è una questione di tecnica riuscire ad ottenere quella particolare nota.

Hai scritto anche dei testi per teatro.
 Non solo, mi piace scrivere poesie, prose. Un genere di prosa a metà strada con la poesia che si chiama tecnicamente "Lasse". Scrivo anche SMS in endecasillabi! Per il teatro ho scritto e diretto "Il labirinto d’Orfeo" e "Verso Tebe". Amo il teatro Pirandelliano, la tragedia greca, ma anche Beckett o Brecht. Trovo una bella sfida riuscire a trasferire la sveltezza della scrittura cinematografica nelle pièce. Del cinema apprezzo molto la sintesi.

Come sei arrivato al cinema?
 Con "I cento passi". Prima non avevo fatto niente, neanche una posa. Di più, ero totalmente ignorante in materia, andavo a vedere massimo tre film l’anno. A parte i soliti "cult" tipo "Taxi driver " o "Apocalipse now" e qualcosa di Hitchcock e Orson Welles, non riuscivo ad appassionarmi così come mi succedeva per il teatro. Ho sempre avuto un atteggiamento troppo di vigilanza, di critica. Ora, essendoci stato dentro, capisco molto di più il gioco che c'è dietro.

Il cinema porta inevitabilmente all'uso di un linguaggio che è molto vicino al quotidiano, forse era questo a darmi fastidio. A mio parere il teatro è un contenitore più adatto alla trasfigurazione, e quindi alla poesia: il Pasolini del cinema non è lo stesso di quello teatrale. Trovo molto belli quei film che emulano in un certo senso l'atto recitativo, come "I cento passi" ma anche i film di Petri.


Quando hai incontrato Marco Tullio Giordana?
“L'incontro con Giordana è avvenuto mentre lavoravo a teatro a Palermo con Carlo Cecchi, stavamo facendo la trilogia shakespeariana. Mi ha visto e mi ha chiamato. All'inizio ho esitato, non mi sentivo proprio adatto al cinema, poi mi sono convinto soprattutto per la storia. Sapevo di poter esprimere la mia natura anche perché ho trovato davvero delle somiglianze studiando la vita d’Impastato, incontrando i suoi famigliari, parlando con amici che mi descrivevano un Peppino-poeta, che scriveva i comizi e leggeva in continuazione. Vedevo che la sceneggiatura aveva molte scene madri, una forte impronta teatrale. In un certo senso mi trovavo a casa.

E il film che stai girando?
Nel film di Piccioni, invece, la cosa è ben diversa, mi sento molto più nudo, sono un ragazzo qualunque, un autista, dentro ad una storia piccola fatta di sguardi e silenzi. Il mio personaggio è molto solo, si confronta spesso con una voce ultraterrena e sta molto nel suo mondo. La sua missione è quella di mettersi in relazione con una ragazza, Sandra Ceccarelli, che ha una figlia. Poi c'è il cattivo, interpretato da Silvio Orlando che si frappone tra lui e lei. Quasi una tragedia classica con tanto d’eroe e antieroe e bella da salvare, in chiave moderna. Con poesia, ovviamente. E' la storia di un sacrificio iniziale che porta alla consapevolezza finale che l'amore è reciprocità. Una bella sfida, che mi attira molto e mi ha fatto conoscere parti di me che non conoscevo affatto.

Tornando a "I cento passi", come si è comportato il paese di Cinisi (dove è nato Impastato) durante la lavorazione?
Si è diviso, come sempre fa la Sicilia in questi casi. Ho parlato col fratello, con gli amici che mi consigliavano: "Peppino camminava accusì, guadda… si mangiava le unghie". La madre di Peppino mi ha fatto entrare nella sua stanza, ancora intatta, c'erano i suoi libri sugli scaffali, è stato un'emozione incredibile erano gli stessi che avevo io, quegli stessi che la madre gli nascondeva per paura e che lui ricomprava puntualmente.

L'altra parte del paese, quella contraria, ha usato lo strumento del silenzio, sposando l'atteggiamento minimizzante di Tano Badalamenti (il mafioso accusato dell'omicidio d’Impastato, n.d.r.) che ha commentato con "roba di cinema", l'uscita del film. Ma, come ha detto giustamente Giordana, quando è stato accusato di fare propaganda politica, nella scena finale del corteo antimafia, quello con le bandiere rosse "mi dispiace, ma quella è storia". Ed è vero, abbiamo ricostruito quella scena come un quadro, copiando dalle foto la lunghezza del corteo, il numero delle persone e delle bandiere.

 


 
 

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