CENTO PASSI



recensioni di

Irene Bignardi
Lietta Tornabuoni
Maurizio Cabona
Mariuccia Ciotta
Alberto Crespi
Charlotte Garson

 

la Repubblica (1/9/2000)
Irene Bignardi
Se il punto di domanda più grosso circa il cartellone di Venezia 2000 riguardava il numero dei film italiani in concorso e, ovviamente, la loro qualità, la sfida di Alberto Barbera, con la proiezione del primo dei quattro, I cento passi di Marco Tullio Giordana, è vinta almeno per un quarto. Anzi, di più, visto il potere emotivo, la forza, la semplice efficacia della regia e della storia (vera), che ha strappato alle proiezioni per la stampa, solitamente contenute e frigide, un lungo applauso. La forza dell'emotività, diranno i più sospettosi, visto soprattutto quell'epico e nostalgico finale al suono di A Whiter Shade of Pale, in cui i giovani, le donne, la gente per bene di Cinisi, Palermo, Sicilia, sfilano sotto striscioni e bandiere rosse al funerale di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia - con un delitto troppo presto archiviato e dimenticato, perché quello stesso giorno, 9 maggio 1978, veniva ritrovato il corpo di Aldo Moro ucciso dalle brigate Rosse. E invece no, quel finale è forse la cosa più facile e ovvia di un film costruito in finezza, frammento dopo frammento, sempre in crescendo, su una storia emozionante e brutale, in cui si intrecciano la liberazione di un giovane dalla famiglia (sull'onda del Sessantotto) e la sua più dura liberazione dalla famiglia mafiosa che incombe sulla città e sulla cultura familiare. I cento passi del titolo sono quelli che separano la casa di Peppino dall'abitazione del boss mafioso Tano Badalamenti - che, dopo un lungo silenzio della giustizia, per questo assassinio è stato finalmente incriminato. Cento passi che nonostante tutto congiuri per farglieli percorrere - la storia familiare, la debolezza di suo padre, l'omertoso clima cittadino - Peppino non percorrerà mai, scoprendo fin da ragazzino, attraverso l'amico e maestro pittore Stefano Venuti, l'impegno politico con il Pci, poi allontanandosene per le troppe prudenze che impone, infine inventandosi attraverso una radio messa su con gli amici un canale fantasioso e irriverente per parlare e dire la sua verità: Badalamenti diventa Tano Seduto, Cinisi è ribattezzata Mafiopoli e il ridicolo è un'arma che dà molto fastidio agli intoccabili. Marco Tullio Giordana, in quello che è il suo film migliore, più forte, più diretto, ibrida con successo il cinema di impegno civile (viene citato Le mani sulla città) con umori più personali e generazionali (ci ritroverete un po' di Radio Freccia alla siciliana), intreccia la denuncia e il ritratto toccante e autentico di un angelo ribelle. E se la sceneggiatura (che il regista firma con Claudio Fava e Monica Zappelli) è scritta con inconsueta precisione, schivando retorica e colore, gran parte della riuscita del film la si deve a una squadra di attori di sorprendente bravura, guidati senza sbavature da Giordana. Al suo primo ruolo sullo schermo, Luigi Lo Cascio si incide nella memoria per simpatia e febbrile passione, è bravissimo Luigi Maria Barruano nella parte di suo padre - un pover'uomo diviso tra l'affetto per il figlio e la sua affiliazione mafiosa-, Lucia Sardo ha una dolorosa intelligenza e Tony Sperandeo, senza sprecare un gesto di troppo, fa sempre paura. Da vedere, anche per chi non è sensibile all'effetto nostalgia.

La Stampa (1/9/2000)
Lietta Tornabuoni
"I cento passi" di Marco Tullio Giordana, prima opera italiana presentata in concorso alla cinquantasettesima Mostra, è un film di sentimento e di nostalgia, una vicenda di conflitto tra figlio e padre, tra individuo e ambiente, tra obbedienza passiva e rivolta vitale. La storia d'un eroe naturale. Nel paese siciliano di Cinisi, accanto all'aeroporto di Punta Raisi, Giuseppe Impastato, Peppino, cresce negli Anni Sessanta in una famiglia legata alla mafia da rapporti di parentela e di interessi, in una comunità ("Mafiopoli", la chiamava lui) dominata dalla mafia: e si ribella. Seguendo un pittore comunista, partecipa a manifestazioni, tiene comizi, guida proteste, mette su una stazione radio di denuncia, ha séguito, usa l'arma più odiata dalla mafia: l'ironia, la beffa, la sfottitura, il sarcasmo contro il boss locale Tano Badalamenti, contro il "Maficipio" comunale, contro l'illegalità sistematica. La madre e il fratello lo sostengono; il padre, spaventato per sè e per lui, lo osteggia e presto muore in quello che è forse un incidente. La rivolta di Peppino è indomabile. Si candida alle elezioni comunali, conduce una campagna elettorale infiammata: due giorni prima del voto, nel 1978, viene trovato morto, saltato in aria col tritolo sui binari della ferrovia. Al funerale, del suo corpo vengono sepolti in un sacchetto soltanto mani e piedi: il resto non c'è più. Il fatto viene definito dai carabinieri un suicidio: solo vent'anni dopo Badalamenti è stato rinviato a giudizio come mandante di quel delitto, e il processo non è ancora stato celebrato. Nonostante i decenni trascorsi, "I cento passi" (il titolo indica la breve distanza che separava la casa di Impastato da quella di Badalamenti, quindi la vicinanza, l'immanenza della mafia) non è un film sul passato siciliano: non molto è cambiato, la mafia è sempre lì e comanda, la sinistra continua a scindersi, dividersi, combattersi. Forse ci sono meno ribelli, oppure esistono molti ribelli a parole e pochi a fatti: il film è vibrante di una intensa nostalgia per un tempo di rivolta e di lotta, di rivoluzionari coraggiosi e di forza d'opposizione, di rimpianto verso figure integre, disinteressate e non riconciliate come Peppino Impastato. Con interpreti benissimo scelti, è pure un film di intelligente analisi sociale, di condanna di quel buon senso collettivo opportunista, accomodante e familista che consente alla mafia di dominare anche oggi. Ed è struggente il sentimento del tempo: "I cento passi" finisce con ragazzi dai pugni chiusi levati in alto e bandiere rosse, con le parole "La nostre idee non moriranno mai".

il Giornale Nuovo (1/9/2000)
Maurizio Cabona
Meglio un mafioso, democristiano per convenienza, o un antimafioso, ultracomunista per convinzione? Incapace di uscire dalle dicotomie, Marco Tullio Giordana sceglie il secondo. Nello slancio strafà e inciampa nei suoi Cento passi, primo film italiano in concorso alla Mostra di Venezia. Che comunque è stato applaudito da una parte della stampa in sala, ma per ragioni politiche più che estetiche. L'ha spiegato il solitario urlo, "Andate da Berlusconi!", di sottile allusività, diretto ai non pochi fischiatori che si opponevano ai plaudenti. Giordana non si sarà stupito. Ha infatti puntato sul "racconto morale": buoni di qua, cattivi di là. Ma un autore dovrebbe mantenere distacco dai personaggi. Con l'opera d'esordio, Maledetti vi amerò, l'aveva fatto parzialmente; col film-tv Notti e nebbie era stato encomiabile per serenità, e non a caso sono le sue opere migliori. Invece I cento passi - la distanza a Cinisi (Palermo) fra la casa del protagonista, Giuseppe Impastato (Luigi Lo Cascio), e quella del mafioso Tano Badalamenti (Tony Sperandeo) - hanno l'enfasi della beatificazione laica. Prendere poi Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) come esempio estetico stilisticamente sa di vecchio. Un po' meno vecchio (1978) è il fatto dei Cento passi, la morte di Giuseppe Impastato: bizzarro demoproletario suicida, secondo la prima inchiesta; eroico antimafioso ammazzato, secondo un pentito - processo non c'è stato - e secondo il film. Giordana non coglie l'ambiguità come essenza del reale. E l'avere trovato in anticipo la "verità" rende il suo film un comizio, con molto déjà vu, proveniente un po' da Avere vent'anni di Fernando Di Leo (1979), un po' da Radio freccia di Luciano Ligabue (1998), con contorno di Tutto l'amore che c'è di Sergio Rubini (2000). Si noti che a firmare la sceneggiatura con Giordana è Claudio Fava, ex collaboratore dell'indipendente e del Giornale, ora deputato diessino, ma soprattutto persona coinvolta nei lutti siciliani: se Impastato era il figlio ribelle del padrone di una pizzeria consapevole di dover convivere con la mafia, Fava è il figlio fedele di Giuseppe, giornalista e romanziere, ucciso presumibilmente da mafiosi a Catania. Una somiglianza di destini che lo spinge a tifare per il personaggio del film e non a centrare la storia sul suo aspetto più lacerante: il rapporto conflittuale tra padre e figlio. Toccava a Giordana riportare l'equilibrio, ma non l'ha fatto. E poi, odiando la mafia più come sezione siciliana della Dc che come associazione a delinquere, si abbandona a una serie di macchiette di genere circa gli amministratori pubblici. Nella figura del maggiore dei carabinieri (Fabio Camilli) che chiude sbrigativamente l'inchiesta sulla morte di Impastato, lascia affiorare inoltre la tesi del "terzo livello"; infine, nell'orazione finale che un amico della vittima diffonde dal microfono della sua radio libera, la tesi del "secondo Stato", col paragone fra la morte di Feltrinelli e quella di Impastato, proprio il giorno del ritrovamento del cadavere di Moro. Una coincidenza che al povero Impastato costò il non avere l'attenzione nemmeno come martire: ancora una volta, un democristiano l'aveva fregato.

il Manifesto (1/9/2000)
Mariuccia Ciotta
Cerimonie e feste finite, per ora, con la consegna al Palazzo del cinema del Leone d'oro a Clint Eastwood, che non ama molto né cerimonie né feste. Si apre il Concorso. Due i film in gara, l'italiano I cento passi di Marco Tullio Giordana e l'indiano Uttara di Buddhadeb Dasgupta. Le ondate di applausi sui titoli di coda de I cento passi hanno coperto i pochi fischi stizziti dalle bandiere rosse che attraversano lo schermo, dietro al funerale di Peppino Impastato, eroe siciliano. Nell'enorme spazio del Palagalileo, ex arena coperta, dove si svolgono le proiezioni per la stampa, ma anche per i rappresentanti dell'"industry", è tutto un trillare di cellulari e di conversazioni più o meno cinematografiche. Difficile concentrarsi. Eppure, quando il thriller politico comincia a lievitare, la platea si ferma e la commozione conquista il silenzio. Perché Marco Tullio Giordana preferisce, come nel suo Pasolini, un delitto italiano, un contatto leggero con la storia. Non spinge l'effetto emotivo, informa, ricostruisce, inanella fatti. E all'inizio è fin troppo didascalico, ma è così forte l'avventura del "piccolo" Peppino che il film dirompe soprattutto nel corpo di straordinari attori come Luigi Lo Cascio (Peppino), Luigi Maria Burruano (Luigi Impastato, il padre), Lucia Sardo (Felicia, la madre), Tony Sperandeo (Gaetano Badalamenti), Ninni Bruschetta e tutti gli altri. Marco Tullio Giordana è un regista a parte nel cinema italiano, e il suo film, come la vita di Peppino Impastato, è un atto di resistenza. Con lui firmano la sceneggiatura Claudio Fava e Monica Zapelli. Cinisi, paese siciliano, bellissimo, sul mare, a pochi passi dall'areoporto di Punta Raisi, che finisce addosso alla montagna, pericolo costante per gli atterraggi. Una dei tanti "capricci" della mafia, che cementifica per avere appalti, distribuire favori, privilegiare gli amici. La droga passa di lì, e Tano Badalamenti ne controlla il traffico a beneficio dei picciotti. Ma ce n'è uno, Peppino, che fin da piccolo non vuole favori, e diventa amico del segretario della sezione comunista, il pittore Stefano Venuti (Andrea Tidona), solo a urlare nel megafono le malefatte mafiose. Il Sessantotto vede Peppino adolescente, e quindi figlio della nuova sinistra, insubordinata alla cultura pci, mossa su altri ritmi musicali, ironia e sberleffo, provocazione e sfida. Armi improprie, spaesanti per i vecchi notabili di Cinisi, tutti che baciano le mani a Tano, il boss. Peppino Impastato li inchioda dai microfoni della sua Radio Aut da combattimento. Spara insulti a rima, dà a tutti un nomignolo: Tano seduto, re di Mafiopolis. "La mafia è una montagna di merda" scrive sul suo giornale "Idea socialista". Roba da ragazzi, mosche fastidiose. Ma il ragazzo cresce e raccoglie una banda di amici, fa gruppo, movimento, manifestazioni. Si mette contro il padre, timoroso come gli altri, straziato dal figlio ribelle. Peppino è il simbolo della disubbidienza. Ed è così sregolato, indisponente, fantasioso, così poco ligio alle regole della "famiglia". Marco Tullio Giordana lo fa agire come un attore surreale, lo segue nella disintegrazione delle regole anche cinematografiche del genere "film sulla mafia". Schegge di commedia, di teenagers-movie, pezzetti di memoria che riscostruiscono la breve storia di Peppino Impastato, cultore di Pier Paolo Pasolini, conduttore di "Onda pazza", uno di quelli che voleva cambiare il mondo e non ha fatto in tempo a cambiare lui, come tanti, perché fu legato a un binario e disintegrato in mille pezzi da sei chili di tritolo. Si era appena candidato alle elezioni comunali nelle liste di Democrazia proletaria. La sua morte coincide con quella di Aldo Moro, e nessuno gli dà molta importanza. Adesso è un mito, in Sicilia. Vent'anni dopo l'"incidente", archiviato come suicidio con la copertura della polizia, la magistratura rinvia a giudizio Tano Badalamenti, mandante presunto dell'assassinio. Il processo deve ancora essere celebrato. Le immagini in bianco e nero del vero Peppino bucano lo schermo quando la storia finisce. La bara passa in un corteo di pugni alzati. Berlusconi ha ragione ad avere paura, anche se in molti lo rassicurano che il "caso è chiuso", quello del comunismo e di Peppino Impastato.

Film TV (12/9/2000)
Alberto Crespi
La memoria della lotta alla mafia viaggia sull'onda di "A Whiter Shade of Pale" dei Procol Harum: e questa scelta musicale spiega l'operazione tentata da Marco Tullio Giordana in "I cento passi". Una volta tanto, la tipica "excusatio non petita" dei registi italiani (tutti i film sulla mafia non sono, a sentir loro, film sulla mafia) ha senso: il viaggio di Giordana - e dei suoi sceneggiatori Claudio Fava, uno che di Cosa Nostra se ne intende, e Monica Zapelli - è tutto interno alla memoria degli anni '70. ll mondo ruspante delle radio private, la contestazione con i suoi risvolti anche patetici, la rivolta di una generazione contro i propri padri. A far la differenza, a trasformare "I cento passi" in tragedia, è il contesto. Chi fondava una radio privata e sfotteva i poteri forti rischiava, a Milano o a Roma, un'irruzione della polizia. A Cinisi, Sicilia, la posta in gioco era diversa: era la morte. Peppino Impastato gioca la propria scommessa fino in fondo: figlio di un mafioso di piccolo cabotaggio, nega il sistema di valori paterni e si rifiuta di percorrere "i cento passi" che separano la sua casa da quella di Tano Badalamenti, il boss che può decidere il suo destino. Giordana rievoca la sua storia con tutto l'amore che, da regista, ha sempre avuto per i ribelli. Come già in "Pasolini", racconta un "delitto italiano": che qualcuno - là, l'opinione pubblica; qui, la polizia - vuol far passare per suicidio.

Cahiers du cinéma (1/12/2001)
Charlotte Garson
Zio Tano è l’incarnazione stessa del capo mafioso locale che tutti lasciano agire impunemente. In questo villaggio siciliano, Peppino Impastato ha perso, grazie a questi, suo nonno e suo padre, prima di farsi egli stesso assassinare. Nel frattempo, Peppino, in questo "biopic" piuttosto interessante (premio per la miglior sceneggiatura a Venezia), ha creato un giornale e una radio libera in cui ha battezzato la borgata "Mafiapoli" e fa la parodia della "Vita Nova" di Dante nei sonetti satirici e dialettali contro i terroristi della crudeltà. Il ritratto della gioventù siciliana nel 1968 è effettivamente un po’ schizzato (Peppino, prima comunista, condivide poi la sua radio con degli hippies la cui non violenza e la libertà sessuale lo mettono a disagio). Ma il film prende le distanze grazie al gioco truculento di Luigi Lo Cascio - la scena in cui legge a sua madre una poesia di Pasolini, lontano dallo sprofondare nel ridicolo o dall’essere semplicemente l’indice della sua omosessualità, sconvolge: "Ho una fame infinita d’amore/Ma di amore di corpi senz’anima/Perché l’anima è in te".
 
 

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