IL PIU' BEL GIORNO DELLA MIA VITA



recensioni di

Tullio Kezich
Silvio Danese
Antonello Catacchio
Alessandra Levantesi
Manuela Martini


 

Corriere della Sera (13/4/2002)
Tullio Kezich

È da sessant'anni, ovvero dall'omonimo film di Vittorio De Sica, che nel cinema italiano «I bambini ci guardano». La novità di Il più bel giorno della mia vita è che stavolta la bambina Maria Luisa guarda i grandi attraverso la videocamera avuta in regalo per la prima comunione. È legittimo intravedere in queste tremolanti sequenze una dichiarazione di poetica della regista Cristina Comencini (classe 1956), da tempo impegnata sui sentieri paralleli del film e del romanzo (è appena uscito il suo «Matrioska»). Figlia del grande Luigi, delicato poeta dell'infanzia da «Incompreso» a «Pinocchio», Cristina si è comportata come se avesse prelevato la cinepresa dalle mani ormai stanche di papà per rivolgerla su di lui e sull'intera famiglia. È chiaro che il film non ha niente di autobiografico perché inventa un gruppo familiare molto diverso dal clan comenciniano (tutte donne, meno il patriarca); ma è evidente che sotto il velame palpita (ed è un valore) un forte sentimento di identificazione. Virna Lisi, radiosa come ai suoi bei dì, è la madre vedova di Margherita Buy (vedova anche lei, inconsolata e alle prese con un figlio difficile), Sandra Ceccarelli (moglie fedifraga del buon Marco Baliani e trepida amante di Jean-Hughes Anglade ) e dell'avvocatino Luigi Lo Cascio (omosessuale riluttante a uscire dalla condizione «velata»). Dopo mezz'ora di prologo, durante la quale il film sembra disperdersi in troppi frammenti, ecco la famiglia riunita: tutti a tavola nella villa di mamma, dove si è infiltrato anche il giovane amante dell'avvocato. Cadono le maschere, si intrecciano i rimorsi, sbottano le recriminazioni; ma non siamo dalle parti di Bergman, tutto si svolge all'italiana senza tragedie. Ed è magari un peccato che l'autrice, per visceralità di coinvolgimento, abbia trascurato stavolta gli accenti di commedia dei suoi precedenti «Matrimoni» e «Liberate i pesci». Il risultato è diseguale nel senso che in questo tipo di conduzione polifonica alla Altman qualche personaggio emerge e qualche altro resta in ombra, qualche soluzione appare calcolata (vedi il telefonatore misterioso, ovvero Ricky Tognazzi, che risolverà i problemi della Buy) e i ragazzi confrontati agli adulti sembrano scritti con la matita. Lampi di memoria e fantasia alla Resnais nobilitano comunque un film sotto il doppio segno di ambizione e sensibilità.

Il Giorno (12/4/2002)
Silvio Danese
Alla ricerca di un equilibrio tra appartenenza (la famiglia) e solitudine (la crisi nel matrimonio) genitori, figli, fratelli, nonni attraversano insicurezze, rimpianti, scoperte, ardori, apparentemente diversi, in realtà analoghi nel "comune senso del dolore". Nelle intenzioni è un film corale sullo stato delle cose, ora che la rivoluzione sessuale e il costume del divorzio sono, come si dice, "a regime" e gli effetti sono diventati società. Nel risultato, la casistica rischia di diventare un trattato di sociologia, anche se la sensibilità cinematografica, umanistica, della Comencini riesce a sottrarre i personaggi dalle grinfie di Alberoni. Ci sono tutti i luoghi comuni (eppur veri): la casa avita della nonna (Virna Lisi), ignara che un figlio è gay e una figlia ha abortito, ma il moralismo del personaggio sembra in ritardo di una generazione; c'è la fine del rapporto marito-moglie (Ceccarelli convincente); c'è un fratello gay in cerca di armonia (Lo Cascio centrato) e c'è una sorella vedova ansiosa nel rapporto col figlio (Buy non accompagnata al suo personaggio).

il Manifesto (13/4/2002)
Antonello Catacchio
Un titolo che potrebbe far supporre di trovarsi di fronte a una commedia, oppure a un film scanzonato: Il più bel giorno della mia vita. Ma Cristina Comencini racconta un'altra storia. Si piazza prevalentemente nella vecchia casa fuori città, dove vive il personaggio di Virna Lisi. Una casa grande, con giardino. E i filmini d'epoca la mostrano nel momento di massimo affollamento con bimbi piccoli e tanti ospiti nel fine settimana. Ma gli anni sono passati, la villa è un po' delabré. I figli, ormai adulti, non amano quella casa quanto la ama mamma. Ci vanno per il rito del pranzo domenicale, ma più come obbligo che come piacere. I figli sono tre. Margherita Buy, vedova, non ha più voluto ricostruirsi una famiglia, solo qualche amante occasionale. Le sue attenzioni sono tutte per il figlio che la preoccupa. Il ragazzo non fa nulla di sconvolgente, è solo più interessato a rimettere in sesto una vecchia barca piuttosto che a frequentare discoteche. Ma è proprio questo che preoccupa la genitrice, ossessionata dal fatto che il giovane possa avere le stesse tendenze dello zio: omosessuale. Luigi LoCascio è infatti lo zio gay. Avvocato, vive con un uomo, ma non ha mai trovato il coraggio di dirlo a mamma e questo non detto lo porta a sacrificare la sua stessa vita di relazione. Poi c'è Sandra Ceccarelli, sposata (ma invaghita di un veterinario), con due figlie, una adolescente e un po' esuberante, destinata all'ennesima bocciatura, l'altra più piccina che si appresta a celebrare la prima comunione. E' lei, forse, a scatenare il pandemonio. Forte del catechismo che sta seguendo chiede a Gesù di far scendere la spada della verità sulla famiglia. E la spada si abbatte, facendo a fette tutte le contraddizioni. Al punto che la stessa bimba si sente in dovere di annullare la sua precedente preghiera a Gesù. Il talento di Cristina Comencini è multiplo. Ha pubblicato anche diversi libri, tradotti in altre lingue per i mercati esteri. E forse un limite del film sta proprio in una scrittura più da leggere che da vedere. I personaggi sono ben delineati, i dialoghi sono buoni, e con rare eccezioni (un errore telefonico davvero telefonato, quindi nessuna sorpresa) la storia scorre anche piacevolmente. Eppure non ci si riesce a liberare dall'impressione di trovarsi di fronte a un prodotto (seppure alto) di derivazione televisiva. Recentemente il ministro Urbani si lamentava del cinema italiano, come se lo volesse accusare di non tenere in considerazione il pubblico. Meglio, li ha definiti «limoni senza succo». E' vero esattamente l'opposto, anche se generalizzare è sempre azzardato. Troppi sono i film italiani succosi. Solo che si tratta di succo che punta in altre direzioni. Il danno vero lo sta infatti facendo la «spremitura» televisiva. Sembra quasi che inconsciamente (o forse per l'intervento diretto delle emittenti in fase produttiva) molti nostri registi cerchino di confezionare prodotti capaci di abbracciare il vasto pubblico domestico in seconda battuta, mettendo un po' in sordina il cinema. Le storie ci sono anche, manca il respiro da grande schermo, quella capacità di affascinare la platea raccolta in sala. I serial o i film per la tv sembrano dominare il linguaggio contaminando ampiamente il cinema. Ne consegue che spesso, e non a torto, il pubblico non punti sul made in Italy in sala, pazientando sino alla messa in onda televisiva che poco sembra cambiare da un punto di vista spettacolare. Abbiamo perso voglia e capacità di pigiare sull'acceleratore delle emozioni, di sperimentare, di osare, di prendere strade nuove che possano dare un segno distintivo alla produzione italiana. Qualche anno fa fu polemica a proposito dei film carini, e qualcosa sembrava essere cambiato negli ultimi tempi, ma capita invece sempre più spesso di assistere a proiezioni in cui ci si interroghi, seriamente, sul perché sia stato fatto un film da quella storia. Storie che talvolta hanno il respiro di un cortometraggio, dilatate e stiracchiate a durata canonica. Oppure, per tornare al Giorno più bello della mia vita, a storie che nonostante l'impegno degli attori, lasciano intravedere una collocazione migliore in altri ambiti artistici. E dispiace, perché Cristina Comencini non solo ha molte cose da raccontare, ma all’occorrenza le sa raccontare bene. Anche al cinema naturalmente. Così, una vicenda a suo modo autentica, ricca di spunti di riflessione per tutti, lontana da facili moralismi o da semplificazioni, capace di farsi apprezzare proprio per il tratteggio dei personaggi, rischia di lasciare più rimpianti che piacere. E la vita sessuale negata di mammà. Le angosce della figlia più grande per il suo pargolo non allineato. Le pulsioni che vorrebbero rompere la routine dell'altra figlia. Il timore del figlio di far male alla madre confessando la sua natura. L'incomprensione di un marito che si sente dire dalla moglie che è innamorata di un altro. Il dramma di un altro che spara alla moglie, senza colpirla. Scivola tutto un po' via, nonostante ci sia il tentativo apprezzabile di non stabilire torti o ragioni, ma di mostrare punti di vista che talvolta sono destinati alla rotta di collisione anche senza colpe soggettive particolari mentre Il giorno più bello della mia vita, purtroppo, rischia di finire nel novero dei film carini.

La Stampa (14/4/2002)
Alessandra Levantesi
La villa è ampia, armoniosa, confortevole: ma un tempo il giardino era ben curato e risuonava di trillanti vocine infantili. Adesso l´aspetto è un po´ fatiscente, il prato inselvatichito e c´è una gran quiete. Troppa. Virna Lisi vive sola nella grande casa coltivando la nostalgia di quando la famiglia era riunita: ormai il marito non c´è più e i tre figli hanno la loro vita, i loro problemi. Rimasta vedova dopo appena due anni di matrimonio, Margherita Buy ha riversato la sua nevrotica affettività sul figlio, che ne ha risentito ed è cresciuto un adolescente inquieto. L´avvocato Luigi Lo Cascio è un omosessuale che ha paura di confessarlo e questo gli impedisce di impegnarsi a fondo nella relazione sentimentale con Marco Quaglia. Sposata a Marco Baliani che l´ama e mamma gratificata di due femmine (una quindicenne e l´altra bambina), Sandra Ceccarelli sembra la più risolta eppure un segreto rovello l´ha trascinata nelle braccia di un altro, il veterinario Jean-Hugues Anglade. Con «Il più bel giorno della mia vita» Cristina Comencini torna al tema a lei caro della famiglia, luogo emotivo centrale dove si formano attitudini, piccole sicurezze e devastanti frustrazioni. Luogo da cui si fugge per cercare se stessi e a cui idealmente si torna per lo stesso motivo: in quanto è lì che è custodito il passato, è lì che è cominciato tutto. Stavolta però la cineasta non utilizza il tipico registro di commedia all´italiana messo tanto bene a punto in «Matrimoni» e «Liberate i pesci», tentando la strada del film intimista dolceamaro. E, in un intersecarsi di punti di vista narrativi e in confondersi di dimensioni spazio-temporali, gioca su un piano stilistico ambizioso quasi da nouveau roman. Per esempio, con struggimento la Ceccarelli pensa ad Anglade che ha deciso di lasciare e il braccio di lui la circonda; oppure il bambino che fu si sostituisce all´adulto che è diventato e così via. Il più bel giorno è quello della comunione della figlioletta della Ceccarelli, che ne affida la memoria alla telecamera ricevuta in dono dalla nonna, ritraendo i genitori per l´ultima volta insieme. Il giorno più bello è quindi anche il più brutto, quando la felicità sta per spezzarsi. E´ in questi momenti che i sentimenti escono fuori a vivo, ma il film non trova sempre lo stesso stato di grazia. Nell´insieme il romanzo corale non è giostrato con piena padronanza e i personaggi non hanno abbastanza spessore, nonostante la Lisi e la Buy siano attrici in grado di sopperire alle debolezze del copione.

Film TV (16/4/2002)
Manuela Martini
Una famiglia. La nonna vive sola in un villone, i figli si sono ormai dispersi in solitudine o in altre famiglie, i nipoti stanno crescendo. Una figlia è vedova, svaporata, un po' nevrotica e non si è mai fidata abbastanza della vita da accettare un nuovo amore (Margherita Bui, che ha il personaggio più bello del film); l'altra (Sandra Ceccarelli) si è innamorata di un veterinario e si rifiuta al marito; il figlio (Luigi Lo Cascio) è gay ma non l'ha mai raccontato alla mamma. Pranzi domenicali a casa di Virna Lisi, che piano piano prende atto di vite non "sotto vuoto" e fa i conti, un po' sconsolati, con gli inganni del suo matrimonio. "Il più bel giorno della mia vita" di Cristina Comencini intreccia nell'arco di due mesi (il tempo della gravidanza di una bella husky, messa incinta accidentalmente da un bastardo festoso) il maturare delle diverse storie e della reciproca comprensione. La sceneggiatura è accurata, anche se talvolta un po' meccanica; gli interpreti funzionano, ma il tutto è cucinato con una dovizia di informazioni, chiarimenti, spiegazioni di marcato stampo televisivo. E Roma è un po' troppo turistica. E la soap incombe. A mezza strada tra "Va' dove ti porta il cuore" e "Liberate i pesci", purtroppo si respira soprattutto l'atmosfera del primo.
 
 

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