LA MEGLIO GIOVENTU


recensioni di

Roberto Cotroneo
Paolo D'agostini
Aldo Fittante
Alessandra Levantesi

Tullio Kezich
Ezio Alberione

 
 

L'ESPRESSO

Gruppo di famiglia in una fiction

Le vicende di due fratelli nell'Italia tra il 1966 e il 2000.
Film-tv di Marco Tullio Giordana. Quattro puntate che faranno molto discutere.
 
di Roberto Cotroneo
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=c&idCategory=4797&idContent=194639
 
Sarà qualcosa di molto simile a una rivoluzione culturale. Come se tutto ricominciasse da zero. Cancellando un decennio
televisivo sconfortante, di fiction mielose, fondamentalmente inutili, con finti poliziotti, finte storie di famiglia, improbabili mafiosi.  Con ogni probabilità Marco Tullio Giordana, romano, 52 anni, regista del pluripremiato "I cento passi", di un film d'esordio, nel  1980, che ormai è un cult di una generazione, "Maledetti vi amerò", di uno dei film più onesti su Pier Paolo Pasolini, questa volta  scatenerà un dibattito nazionale, usando il mezzo più popolare e fino a poco tempo fa più affascinante che ci fosse: la televisione.

Racconta l'Italia dal 1966 al 2000, attraverso la storia di due fratelli, Nicola e Matteo Carati. Ambientato a Torino, a Roma, in Sicilia, con un cast di  attori giovani, non scontati, eppure ormai consolidati: Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Sonia Bergamasco, Fabrizio Gifuni, Maya  Sansa, Jasmine Trinca e una bravissima Adriana Asti. Con una sceneggiatura di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, che questa  volta sono andati oltre il loro eccellente artigianato; prodotto da Angelo Barbagallo per Rai Fiction. Insomma sei ore di film,  come lo chiama Giordana: una puntata per decennio.

Un romanzo popolare che, fatte le debite proporzioni, può ricordare "La storia" di Elsa Morante in forma di fiction. Ma come è  possibile che in questa Italia assopita e anestetizzata da almeno un decennio di spazzatura televisiva possa arrivare sugli schemi una cosa del genere? La risposta forse sta in una scelta di Giordana, che dopo il successo dei "Cento passi", anziché girare subito un film successivo, si è buttato su questa sceneggiatura, per due anni. Una scelta giusta, addirittura ideologica. Fare un film per la televisione anziché sfruttare l'onda lunga del cinema. Una scelta che però ha un altro motivo. Per raccontare la storia dei due fratelli e delle loro famiglie, l'Italia degli anni Sessanta, il terrorismo, il dramma di un paese che si risolleva lentamente, le storie minime che corrono da una puntata all'altra ci voleva molto tempo a disposizione. Neppure un film di tre ore sarebbe stato sufficiente. Per questo "La meglio gioventù" dura ben sei ore.

Sei ore che iniziano con la celebre "The House of the Rising Sun", degli Animals, una Roma di pini marittimi e quartieri di piccola borghesia. Dei ragazzi che studiano. Di qualcosa che cambia. Luigi Lo Cascio che è Nicola, studia medicina; Alessio Boni che è Matteo, studia lettere, l'amico Carlo che è Fabrizio Gifuni è iscritto a economia. È una giovinezza incerta la loro, finché l'incontro con Giorgia (Jasmine Trinca) non cambia i loro destini. Giorgia è una ragazza ricoverata in una casa di cura, vittima dell'elettroshock. Matteo la porta via. Nicola decide che diventerà psichiatra. Matteo entra in polizia. I due fratelli sono su versanti opposti: Matteo nella celere, Nicola psichiatra basagliano, a Torino. Nicola vive con Giulia (Sonia Bergamasco) con cui ha una figlia, Sara. Giulia diventerà una terrorista. Carlo, che si laurea in economia va in Inghilterra a specializzarsi e poi fa carriera in Banca d'Italia.

Lentamente la storia si dipana, come un rullo per una volta coerente e per una volta senza luoghi comuni. Anche se ci sono alcuni aspetti didascalici, indispensabili secondo il regista, se non altro per orientare lo spettatore. Si vedrà il dramma di Matteo, si vedrà Nicola portare in tribunale i malati di mente a testimoniare contro uno psichiatra sadico e brutale, si vedrà il mutamento di Giulia, da sessantottina a terrorista, con una gradualità che spiega come poteva verificarsi quel tipo di percorso. Si vedrà l'Italia degli anni Ottanta, nella sua quiete apparente, ma ancora con tutti i fili sotterranei di un paese irrisolto. Si vedrà il nostro ultimo decennio, un nuovo decennio di incertezza, preludio a qualcosa che nessuno di noi sa veramente.

Ma la cosa più importante è quello che non si vedrà. E che noi giornalisti siamo abituati a mettere in scena. Non ci sono giornali in questo film, nessuno guarda la televisione, non c'è nessun uomo politico riconoscibile, non ci sono personaggi dello sport, della mondanità, dell'industria. Non ci sono intellettuali. A parte uno, che una rivoluzione l'ha fatta, ma attraverso un lavoro anche sommerso sulla coscienza di un paese: Franco Basaglia. Per il resto solo tre riferimenti riconoscibili: due vaghi accenni a Italia-Corea dei Mondiali del 1966 e alla finale dei campionati del Mondo in Spagna del 1982. E la strage di Capaci, nel 1992, dove fu assassinato il giudice Giovanni Falcone. Nient'altro.

Ma si può raccontare la storia d'Italia senza raccontare quello che ci ossessiona continuamente, nomi, facce, eventi, dettagli, e
altro ancora? Questa è stata la scommessa di Giordana, e poi di Rulli e Petraglia, ma anche degli attori stessi, che hanno una
presenza così forte da non sentire il bisogno di essere aiutati da altro, da "post it" della storia appiccicati alla meglio, da etichette facili e sostanzialmente inutili. I personaggi di "La meglio gioventù" stanno lì, in un intreccio di sentimenti, di nostalgie, di ritratti che commuovono persino. Come Angelo, il padre dei ragazzi (Andrea Tidona), un tipico italiano degli anni Sessanta, entusiasta, un po' guascone, intuitivo ma anche pasticcione. O come la madre di Nicola e Matteo (Adriana Asti), irreprensibile insegnante di italiano di una scuola media romana. O di Carlo che finirà per sposare la sorellina più piccola di loro, Francesca, che ha una dozzina d'anni meno di lui. O di Vitale, il quarto amico (Claudio Gioè) che fa l'operaio alla Fiat e poi finisce in cassa integrazione, e che spiega bene quell'interclassismo sociale, che è stato dell'Italia degli anni Sessanta e Settanta e non è più dell'Italia di oggi. Molti dei temi cari a Marco Tullio Giordana, al suo cinema, sono trasferiti in queste quattro puntate televisive. La musica di Astor Piazzolla, che c'era anche in "Maledetti vi amerò", Luigi Lo Cascio che porta un po' dei "Cento passi" anche nella "Meglio gioventù".

Ma quello che colpisce è il coraggio di questo film. Di togliere di mezzo, una volta per tutte, una quantità di sciocchezze sulla
storia d'Italia di cui siamo infarciti inconsapevolmente, complice una propaganda mediatica devastante e sempre più volgare. E
sostanzialmente schizofrenica, tutta celebrazioni, mitizzazioni e schematismi.

Questa "Meglio gioventù" è invece una gioventù colta e sofferta, di un'Italia non autoreferenziale, che capirà molto bene quella
stragrande maggioranza di spettatori che non vive a Roma o a Milano, e che ha attraversato questi anni un po' come ha fatto la
famiglia Carati, tra piccole rivoluzioni quotidiane, scelte etiche, e molto buon senso. E certamente dolore, non quello esplosivo e clamoroso amplificato dai media e dall'audience, ma quello sommesso, profondo e quotidiano. "La meglio gioventù" si chiude
come si chiudono tutti i bei romanzi popolari. Con una circolarità, con un ritorno di tutte le cose, con le generazioni che si
sostituiscono a quelle vecchie. Con una speranza: comunque e dopotutto perché non può che essere così e non può che andare così. Ma anche con la memoria vera di un paese che ti ritorna tutta addosso, finalmente, e che non può che regalarti un senso di sollievo e di felicità.

 
la Repubblica (21/6/2003)
Paolo D'agostini
Siamo di fronte all'anomalia di un'opera che è sicuramente un film, ma un film di sei ore e concepito per la fruizione televisiva (in 4 parti). In un certo senso bisogna essere grati ai ritardi e alle prudenze della Rai che dall'inverno scorso ne ha rimandato la trasmissione all'autunno prossimo, perché intanto La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana - e viale Mazzini deve ringraziare il prestigio personale del regista di Cento passi - ha avuto il raro onore toccato soltanto a pochi big come Bergman, Fassbinder e Kieslowski di essere selezionato da un grande festival cinematografico, e da Cannes è uscito carico di elogi. Tanto da convincere produttore e distributore a tentare la sortita in sala (in 2 parti) dopo alcune anteprime pubbliche che ne hanno accresciuto l'aura di "evento speciale". Come fu per Heimat, la saga tedesca di Edgar Reitz. Quello che fecero per il nostro cinema gli sceneggiatori Rodolfo Sonego con Una vita difficile di Dino Risi e Age e Scarpelli con C'eravamo tanto amati di Ettore Scola, hanno fatto per la nostra migliore televisione Stefano Rulli e Sandro Petraglia già una prima volta con La vita che verrà (1999, regia di Pasquale Pozzessere) proseguendo oggi, cronologicamente a partire proprio da lì dove quel racconto si fermava. Cioè ideare e scrivere un romanzo popolare della vita collettiva di una generazione italiana. Quella, in La meglio gioventù, di chi aveva vent'anni nel '68. Con il decisivo tocco di un regista eclettico e sensibile, intelligente e appassionato. Nell'arco degli oltre 35 anni che dall'estate del 1966 giungono a noi, si snoda l'avventura esistenziale di due fratelli, Nicola (Luigi Lo Cascio, superlativo) e Matteo (Alessio Boni, il suo era il ruolo più difficile). Attraverso le fertili contraddizioni e l'arricchimento ora gioioso ora doloroso di quell'accidentato itinerario che è la vita con i suoi incontri, essi rappresentano due opzioni. Nicola pratica il disordine, Matteo cerca l'ordine. Nicola vive tutti i passaggi della sua generazione: il viaggio in Svezia e il volontariato a Firenze alluvionata, la psichiatria alternativa di Basaglia e l'estremismo politico che inghiottirà sua moglie Giulia nelle Br. Matteo si arruola (pasolinianamente?) nella polizia e sulle piazze degli anni incandescenti si trova dall'altra parte. Ma sarà Nicola a trovare un ordine, un'armonia, mentre a Matteo resterà la disperazione. Un "bravi" generale a tutti gli interpreti con una menzione speciale per Andrea Tidona (il padre dei ragazzi), Maya Sansa e Claudio Gioè. E la più grande soddisfazione per il respiro di un disegno che dimostra la vitalità del cinema quando sa dirci (e scommettiamo che altrettanto saprà fare Marco Bellocchio con Buongiorno notte sull'assassinio di Moro?) che "la storia siamo noi".

Film TV (24/6/2003)
Aldo Fittante
Due densissimi atti per un lungo e a tratti straziante affresco che parte nel 1966 e arriva ai giorni nostri: il precedente del capolavoro di Marco Tullio Giordana è un'altra pellicola italiana dalle identiche coordinate e ambizioni storiche - Novecento di Bernardo Bertolucci - anch'esso distribuito nei cinema in due parti. Li accomuna, altresì, la sottotraccia melodrammatica (Giordana confessa di avere pensato a Fassbinder), il respiro grande dell'opera lirica, l'assoluta mancanza di vergogna nel bagnarsi con le lacrime della vita, con l'assoluto e la purezza (il tormentato personaggio di Matteo, per il quale si tifa: e grazie ad Alessio Boni), con la coerenza e l'etica (Nicola: un'altra straordinaria testimonianza di Lo Cascio), con il ripudio e le scorciatoie (l'intensa, ispida brigatista di Sonia Bergamasco), con il feroce pragmatismo istituzionale (il pacato, sottile Carlo di Gifuni, qui alla sua prova cinematografica più matura), il meglio e il peggio di una generazione, pasolinianamente contrastata, coinvolta e distaccata, calda e distratta, come un'opera al nero di Rainer Werner Fassbinder appunto. Da uno dei migliori copioni scritti in Italia negli ultimi vent'anni (di Sandro Petraglia e Stefano Rulli), Giordana - già cantore dell'ossimoro, a cominciare dal suo felicissimo esordio del 1980, Maledetti vi amerò, del che facciamo noi dopo la Rivoluzione? - dipinge, colora, mostra, guarda, osserva, scava, divelle i suoi personaggi predatori di un futuro migliore con l'affetto del fratello maggiore che ci è già passato e che ha voglia, innanzi tutto, di sottolineare quanto molto di buono c'era anche se si scivola sempre e ancora. In questo, un autentico film sessantottino, libero e svincolato da dogmi cinematografici e ideologici e perfettamente in linea col percorso artistico del regista. Così come segue le passioni del cuore lanciate verso antiche e mai sopite scandalose tenerezze (Truffaut, Visconti, il più volte citato RWF e a noi piace ritornare a/su Bernardo Bertolucci), avvolte in echi musicali (House of the Rising Sun, certo, ma è 0blivion di Astor Piazzolla il sotterraneo motore di ricerca interiore) che paiono (ma probabilmente è proprio così) sopraggiungere da lontano, da un mondo trasformato in fotografia di un tempo, irrimediabilmente passato. Ci innamoriamo, allora, di Matteo e di Mirella, di Giulia e di Nicola, di Carlo e di Francesca, di Giorgia e di Adriana, perché già amati da Giordana e dalla sua fluttuante macchina da presa, davvero - una volta di più - nel senso del prendere, del rubare emozioni, dell'imparare a stare e a starci - e quindi anche davanti e dietro a un obiettivo. Scene madri con una vera madre (quei libri sotto la pioggia, Adriana Asti, Nicola e la dolce, sorprendente Valentina Carnelutti...) che sfida a pugni la tragedia, con un poliziotto che si toglie le scarpe e di mezzo e si getta via perché se non si può avere il meglio dalla gioventù è bene andarsene da un'altra parte, per tornare più tardi, pacificati e consapevoli di poter finalmente essere ciò che si pretendeva. L'esperienza del dolore, la sofferenza delle perdite, l'incomprensione degli sguardi, l'impossibilità che - chissà perché - spesso (ci) si regala a proposito di quella cosa chiamata amore. Ma, e Giordana coglie in pieno il senso della scrittura di Rulli & Petraglia, ognuno è ciascuno e tutti sono liberi e arbitri del proprio destino. È vero, c'è (anche) la Storia: un'alluvione a Firenze e un attentato a Capaci, uno psichiatra che libera i "matti da legare" e qualche milione di giovani sparsi negli angoli più suggestivi di un pianeta che vorrebbe cambiare, (s)travolgere, ribaltare. Ma è il primo prato, la crosta sul quale muoversi e viaggiare, da Capo Nord a Palermo, per capire magari perché si può morire per scelta o per sventura, onore o tumore, perché si è la meglio gioventù o il peggio possa capitarci. Un fiume, questo capolavoro che si presenta in punta di piedi, con pudore e compassione, con (s)balzi di piena che tracimano ostacoli e innocenti. Un romanzo di ottocento pagine e una volta scorte impossibili da riporre sul comodino. Un contenitore, e non nell'accezione mediatica moderna: piuttosto, una realtà "virtuosa". come vorremmo (dovremmo) vivere nel mondo.

La Stampa (29/6/2003)
Alessandra Levantesi
Il tempo passa e a un certo punto, con sorpresa, ci accorgiamo che siamo più vecchi e che il paesaggio intorno - parenti, amici, noi stessi - si è a poco a poco modificato. Così è per il gruppo familiare di «La meglio gioventù» come lo ritroviamo nella seconda parte che va dall’alba degli anni ’80 al giorno d’oggi. Sotto un’apparente immutabilità, molto è cambiato o sta per cambiare. Muore l’adorabile papà Andrea Tidona, resta sola nell’appartamento romano pieno di ricordi la mamma insegnante Adriana Asti. A Torino, da che la moglie Sonia Bergamasco ha scelto la clandestinità, lo psichiatra socialmente impegnato Luigi Lo Cascio cresce da solo la figlia. La sua strada si è di nuovo incrociata con quella della psicolabile Jasmine Trinca che salva da un infame istituto; mentre il fratello poliziotto Alessio Boni potrebbe costruirsi un futuro con la fotografa siciliana Maya Sansa se non fosse per il suo carattere dannato. Intanto la sorella maggiore Livia Vitale, magistrato d’assalto, continua a combattere sul fronte della mafia e della corruzione e la più piccola, Valentina Carnelutti, sposa Fabrizio Gifuni, brillante economista minacciato dai brigatisti. Le tragedie del paese, dalla strage di Capaci agli ultimi sussulti della lotta armata, si riflettono su questo emblematico gruppo, intrecciandosi con i drammi personali. Ma ci sono anche gli effetti profondi, la solidarietà, il discernimento, la capacità di perdonare, l’ebbrezza di amare. E alla fine, magari attraverso il fresco sguardo di un nipote, si può tornare a credere (come all’inizio, sullo slancio della prima gioventù) che «Tutto è bello». L’emozioni piccole e grandi sprigionate da questo coinvolgente romanzo familiare che Marco Tullio Giordana, sulla base di una bella sceneggiatura di Rulli e Petraglia, ha diretto con un’abilità mai disgiunta da un’appassionata partecipazione, sono trasmesse da un cast di attori tutti bravi e motivati, in cui spiccano Lo Cascio, Boni e un’ispirata, sublime Adriana Asti.

Corriere della Sera (28/6/2003)
Tullio Kezich
Lunga vita a La meglio gioventù, che dopo i trionfi di Cannes e delle proiezioni speciali ha affrontato non senza incoraggianti risultati l'alea della normale programmazione ed è arrivata alla proposta della seconda parte. Tre ulteriori ore di gran romanzo contemporaneo che si aggiungono alle prime tre, già sugli schermi, e completano la saga della famiglia Carati. Questa maratona filmica si configura come una specie di antidoto all'attuale per coloro che vedendo ogni giorno certe facce nei telegiornali, ascoltando ciò che dicono, respirando un'area che può diventare soffocante, si vanno disamorando della patria e vorrebbero esser nati altrove. «Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi», scrisse Brecht. Direi che nel ripercorrere gli ultimi quarant'anni della storia repubblicana la cavalcata di Marco Tullio Giordana, scritta da Rulli e Petraglia, non ha l'ambizione di erigere monumenti, ma suggerisce sommessamente alcuni possibili modelli di comportamento. Sul versante pubblico, con l'affermazione della solidarietà (vedi i volontari all'alluvione di Firenze), del rispetto per il malato di mente, del bisogno di ordine (qui c'è un giovane che sceglie di diventare poliziotto) e insieme di novità (i ribelli del ' 68), della lotta contro la mafia, della voglia di viaggiare e conoscere. Quanto al privato, la trama imbastita fra agnizioni e colpi di scena che attestano negli autori una vispa furberia spettacolare (lo prendano come un complimento) non elude gli scontri con i problemi più grossi, mettendo i personaggi di fronte al dolore, alla follia, alla gestione delle scelte sbagliate (la clandestinità, il suicidio). Però la lunghezza del film serve a ricordare che la vita è lunga; e ci dà il tempo per riflettere, correggerci, reinventare i rapporti, cambiare radicalmente. Tutto questo non verrebbe a galla se La meglio gioventù si riconducesse a un teorema, ma per fortuna i contenuti risultano fantasiosamente avvolti nelle pieghe di una narrazione libera di andare dove vuole. Merito in particolare di un gruppo di attori totalmente immersi; e a quelli già nominati per la prima parte (ma come non ripetere l'elogio di Adriana Asti, che proprio in questo secondo capitolo ha le sue scene memorabili?) si aggiunge la presenza tenera e risolutiva di Maya Sansa; e sul terzetto che forma con i fratelli protagonisti (uno dei quali è un fantasma evocato con spregiudicatezza alla Bergman) si chiude un film che senza mai essere edificante riscalda il cuore e alimenta la speranza di una crescita della nostra coscienza civile.

Corriere della Sera (21/6/2003)
Tullio Kezich
Arrivare a una qualche verità attraverso il romanzo, arrivare al quadro storico attraverso le vicende private. Arrivare all'ottimismo attraverso la stoica accettazione delle tragedie e dei dolori. Questi sono obiettivi che di solito si pone solo la grande letteratura. Il cinema, molto meno; e la televisione, mai. Donde la lieta sorpresa di La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, una straordinaria impresa produttiva pilotata da Angelo Barbagallo (sei ore di film, in origine destinate alla tv e ora divise in due appuntamenti in sala) che sulla scia di Heimat di Reisz sfida le abituali formule confidando nel flusso di un'appassionante materia narrativa. Tra le novità dell'operazione c'è anche quella che potremmo definire «la separazione delle carriere» perché nei titoli Sandro Petraglia e Stefano Rulli firmano da soli il copione e Giordana la regia. Una soluzione apparentemente anti-autoriale, tale da mettere in crisi gli ortodossi della Nouvelle Vague, ma utile a dimostrare che in qualsiasi bel film c'è posto per vari autori. La saga dei Carati, una famiglia di padre romano (Andrea Tidona) e madre milanese (una Adriana Asti da premio) con 4 figli (2 maschi e 2 femmine), è raccontata dall'estate ' 66 ai nostri giorni. Le vicende dei fratelli Luigi Lo Cascio e Alessio Boni convergono e divergono secondo i momenti: impegnati entrambi a salvare dalla disperazione una ragazza con problemi psichici, Jasmine Trinca, finiscono il primo antipsichiatra basagliano e il secondo poliziotto. Durante l'alluvione di Firenze del 1967 Luigi incontra la donna della sua vita, Sonia Bergamasco, con la quale avrà una bambina nel corso di un'unione difficile che vede lei finire nella lotta armata. Anche la vita di Alessio, segnata da un carattere che mal si adatta alla disciplina delle forze dell'ordine, non sarà facile nonostante l'apparizione di una giovane fotografa, Maya Sansa, e si aggiungono i casi della sorella maggiore Lidia Vitale, esposta ai rischi del magistrato d'assalto, e della minore, Valentina Carnelutti, moglie dell'amico Fabrizio Gifuni che in quanto dirigente bancario si ritrova nel mirino dei terroristi fra i quali milita la compagna di Luigi. In tal modo ho accennato agli ispirati interpreti di un gioco condotto fra simmetrie e contrasti sposando l'impegno con una ricca spettacolarità derivante dallo svariare degli sfondi e dall'incalzare delle situazioni. L'altra metà di La meglio gioventù è annunciata per la settimana prossima e immagino che nessuno, avendo visto la prima, se la vorrà perdere.

Duel (25/8/2003)
Ezio Alberione
Parte dal centro - dalla capitale - il viaggio del film di Giordana, che poi si muove fuori e dentro i confini della madre patria a dimostrazione di una vocazione centrifuga, potenzialmente sbandata o forse solo anelante alla libertà, del racconto e dei personaggi. Parte da uno scorcio romano (che torna tre volte nel film), un coacervo di architetture e di epoche storiche che costituisce già un'indicazione: come se la storia fosse fatta di accostamenti, integrazioni, ampliamenti più che di cancellazioni, abrasioni e rotture. Parte da un tempo sospeso, da un vuoto - la "vacanza" estiva del 1966 - per attraversare quasi quattro decenni di storia italiana, anni pieni e pesanti di fatti, persone, avvenimenti, questioni private e vicende pubbliche. Nasce così il corso fluviale della Meglio gioventù. Con una forma che è già sostanza di un discorso storico: una narrazione distesa nel tempo e nello spazio, uno scorrimento a tratti lento e a volte trascinante, con personaggi che sono affluenti impetuosi o sotterranee correnti carsiche... Il fatto stesso che al cinema esca diviso in due parti - un primo atto che va dal 1966 al 1982; un secondo dall'82 a oggi - sembra un riverbero della natura stessa dei personaggi («Chi non è diviso in due? Tu sei tutto poliziotto? lo sono tutto medico?»). Forse della natura stessa degli italiani. La meglio gioventù è un heimatfilm nostrano che, attraverso la vita di due fratelli, dei loro consanguinei e amici, tenta il bilancio di una generazione che non è stata solo di rivoltosi e terroristi, come poteva sembrare qualche tempo fa, e nemmeno, come a volte sembra oggi, di figli di puttana che prima o poi sono saliti sul carro del vincitore di turno. Questa "meglio gioventù" è una generazione - ma forse si potrebbe dire un Paese - che ha ospitato al suo interno speranze e contraddizioni, spinte in avanti e bruschi stop, docce gelate e brucianti passioni, la lotta e l'impegno, il disordine e il bisogno di regole. Una generazione che voleva tutto ma che ha trovato o perduto molte cose per caso. Rulli, Petraglia e Giordana lo sanno perché è proprio dei migliori anni della loro vita che si sta parlando. Ma non hanno un'ambizione sociologica o epocale: scelgono di guardare agli individui, alle persone o al massimo ai gruppi che conoscono meglio. La "meglio gioventù" evocata dalla canzone era quella delle persone chiamate a fare la guerra e perciò destinate ad andare "sottoterra"; qui, in un senso più ampio, esprime la condizione di chi si assume delle responsabilità, fa delle scelte per governare la propria vita o aiutare quella degli altri Con il rischio di non farcela o di finire travolto dagli eventi. «L'Italia è un paese bello e inutile... Un paese da distruggere» dice il professore universitario all'inizio del film. Dopo circa sei ore, sapremo che «tutto è veramente bello» e che è valsa la pena di vivere, lottare, amare, cercare di capire e di migliorare il mondo. La meglio gioventù, al di là del titolo e di un riferimento puntuale alle posizioni di Pasolini sugli scontri tra contestatori e polizia, non è un film pasoliniano: non lo è nella messinscena e non lo è negli assunti ideologici. Non ne ha la religiosità e la fisicità, anche se ne condivide la stessa matrice civile (secondo quella linea minoritaria della cultura italiana che comprende nomi come Dante, Foscolo, Leopardi e, appunto, Pasolini), ma non è un film pessimista, esacerbato e sconsolato come l'Italia aveva fatto diventare Pasolini. Al contrario: il film di Giordana gronda dolore ma distilla speranza, contiene il tragico (nella figura di Matteo) ma subordina tutto al suo impianto "progressista", e cioè a un'ipotesi riformista e migliorativa della società e della vita. Addirittura prevede la conservazione di un'amicizia interclassista che resiste agli anni e all'acuirsi delle diversità tra le persone: segno di una fratellanza possibile degli italiani in nome di una storia comune e condivisa (siccome gli italiani si scoprono fratelli solo in occasione dei mondiali di calcio, i nostri eroi non esitano a tifare Corea per smontare la più superficiale delle esibizioni di italianità). E' un film talmente dominato dalla positività da riuscire nell'impresa di fondere cinema e televisione. Infatti non è per nulla "antitelevisivo" come viene detto da coloro che ritengono impossibile l'accostamento qualità e tv. La meglio gioventù è una grande lezione su come si potrebbe usare al meglio il mezzo televisivo, i suoi codici linguistici, le sue tipiche strutture narrative. La sceneggiatura non ha paura di richiamare la tradizione del feuilleton e magari anche qualche topos da telenovela (come quel figlio di un'unica notte d'amore che a un certo punto sbuca fuori...; ma va benissimo, perché la sceneggiatura ha già previsto anche una possibile replica a chi criticasse una scelta del genere, quando dice: «le cose brutte ci sembrano naturali, le cose belle facciamo tanta fatica a crederle»). Soprattutto è un film di immagini che cercano di "cogliere il mistero" dell'esistenza individuale, dei vissuti relazionali e del tessuto storico che ogni vita e ogni scelta alimenta. Forse non è sempre riuscito l'invecchiamento di alcuni personaggi, ma quel che davvero conta - la loro anima - balza in tutta evidenza sullo schermo: lo "spirto guerrier" di Matteo o la "simpatia" di Nicola sono impresse nei volti di Alessio Boni e Luigi Lo Cascio (ed è un discorso che vale per l'intero cast, uno dei migliori visti in un film italiano degli ultimi vent'anni). E' anche grazie a questi attori che La meglio gioventù diventa uno straordinario esempio di cinema glocal: una storia d'Italia inedita e preziosa (davvero a molti "carati"), ma anche il romanzo di formazione di chiunque abbia capito che la storia, comunque e dovunque, siamo noi. Un affresco monumentale che fa pensare subito a un altro cinema, quello dei cineasti pittorici come Visconti che hanno saputo raccontare i mille rivoli della Storia non prestandosi a compromessi e infingimenti. La meglio gioventù, senza essere stato pensato per uno sfruttamento cinematografico, si presenta finalmente come un progetto autonomo sull'evoluzione dei rapporti familiari in trent'anni di vicende italiane, dall'alluvione di Firenze al '68, passando per Basaglia, Tangentopoli e arrivando agli albori degli anni Novanta. Di "sua emittenza" Silvio Berlusconi, forse simbolicamente, non si parla, perché per gli autori non era ancora tempo. Un eccesso di prudenza, di calcolo? Niente di più falso. Marco Tullio Giordana è un cineasta che merita rispetto, e la parte meno riuscita del suo lavoro, quella conclusiva che si adatta su tempi e stilemi più "televisivi" (melodramma e lacrima facile), non deve ingannarci sull'importanza dell'operazione messa in atto con efficace resa espressiva. Non si tratta, per una volta, di una semplice fiction. I critici d'oltralpe hanno notato come nell'ltalia dei talk-show, delle bambole "impailIettate" e delle reti televisive politicizzate, la possibilità che un film fluviale come La meglio gioventù venga programmato in autunno in prima serata dalla televisione di stato (!?!) rappresenti un esemplare momento di alternativa del gusto e dello sguardo. Giordana si è messo dalla parte di chi osa sfidare la televisione con i suoi stessi mezzi, e ciò ha mantenuto desta la qualità narrativa di un'opera che dice molto di più della semplice tv. Più che nei Cento passi, Giordana vuole esprimere un'adesione anche emotiva ai fatti che racconta. Non siamo molto lontani dall'ambizione etica di Pasolini - Un delitto italiano, ovvero dallo stile investigante che riproponeva gli eventi con la veemenza propria di chi aveva operato attentamente nella ricostruzione dello spirito dei tempi più che sull'esattezza perfettibile dei fatti. La meglio gioventù lavora sui mescolamenti tra vita individuale e vicenda collettiva, ricordandoci che siamo parte di un racconto (la nostra vita) che ha bisogno di essere compreso e vissuto con passione. La distanza tra il ragazzo di Firenze e la ragazza di Torino rappresenta "i cento passi" simbolici che occorre fare per divenire parte di un destino collettivo segnato dalla nostra presenza personale, per essere parte di una Storia non scritta unicamente nella pagine lontane dei libri di Storia. Non a caso i "cento passi" erano, nel film omonimo, quelli che separavano la casa degli Impastato, famiglia fiancheggiatrice della mafia nel paese siciliano, da quella del boss Tano Badalamenti. Una distanza che nel film di Giordana diventava luogo del raccordo temporale nonché segnale della necessità di cambiamento, con esemplari balzi dagli anni Sessanta ai Settanta del delitto Moro e dell'uccisione da parte di Cosa Nosta di Peppino Impastato. In una sequenza di quel film, veniva proiettato in un cineforum Le mani sulla città, e il regista dimostrava di essersi laureato simbolicamente alla scuola del miglior Rosi, sebbene il suo stile possa sembrare talvolta piatto (nella forma e nei contenuti). La meglio gioventù ha dunque il merito indiscutibile di recuperare le fluide architetture temporali di ascendenza viscontiana care al miglior Giordana, al servizio di personaggi che vivono sullo schermo attraverso ritratti a tutto tondo. Il racconto di costume è probabilmente ciò che deve avere stimolato maggiormente il regista, altrove apparentemente più freddo e distante a confronto con i suoi personaggi (si pensi al disegno certamente non accattivante del giovane Peppino Impastato dei Cento passi, con cui però il regista rendeva sentitamente straniante lo sgomento per il suo tragico destino). Nondimeno, nelle sue parti migliori, l'opera di Giordana riesce a raccontarci con stile commosso ma a ciglio asciutto la storia di questi due fratelli che vivono gli inseparabili anni dell'adolescenza fino all'apparire di una ragazza con gravi problemi psichici che cambierà la loro vita. L'aria del tempo è palpabile, vivida, come in Maledetti vi amerò, viaggia nella memoria collettiva della generazione che aveva vent'anni nel 1968, opera che ha in comune con La migliore gioventù l'eccellente interpretazione degli attori protagonisti e la capacità di analizzare i grovigli di un Paese sconfitto filtrandoli attraverso la sensibilità di alcuni individui che hanno saputo prendere decisioni eccezionali. Amaro ma terribilmente vicino ai mondi che descrive, qua e là con eccessi didascalici (così ad esempio per l'utilizzo della musica), il cinema di Giordana non smette di incuriosirci grazie alla capacità di farci rivivere i sentimenti del tempo, tra attimi di disperazione e lampi di ironico disincanto. Questa volta un insolito happy-end disegna una nota di ottimismo e porta colore alla speranza. In alcuni momenti di incertezza espressiva, quando il racconto concede troppo ai moduli televisivi, sembra di rivedere un film come La caduta degli angeli ribelli (1981), quando il sospetto di autocensura toglieva spessore e autenticità allo sforzo di Giordana di raccontare il rancore di un ex terrorista e il suo incontro con una donna borghese. La meglio gioventù riparte in fondo da lì, da questa necessità sentita dal regista di raccontare trent'anni di vita mettendo in evidenza gli sconvolgimenti provocati dall'incontro tra differenti concezioni del vivere, perorando la causa del cambiamento anche in individui apparentemente estranei al confronto. In questa prospettiva le sue pagine di cinema migliori non sono forse quelle che pretendono di farsi indagine sgomenta bensì quelle che tornano a raccontare, magari con un po’ di enfasi, magari con toni non sempre precisissimi, lampi di passione per le esistenze non appiattite dall'Italia del consenso e dell'indifferenza.
 
 

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